Quale diagnosi?

di Giandomenico Montinari
psichiatra psicoterapeuta

Vorrei affrontare quello che è forse il fenomeno più grave (e progressivamente ingravescente) che si riscontra nel nostro modo di gestire la Psichiatria: la sottovalutazione della psicosi.
Mi rendo conto che questo sospetto rischia di gettare un’ombra di incompetenza su tutti noi addetti ai lavori e sugli psichiatri in particolare: è come dire che un oculista non riconosce o addirittura non vede la cecità o che un fisico atomico ignora o non individua la radioattività…
Avrei voglia di allargare il discorso, come ho fatto in alcuni miei libri a contenuto antropologico e come sarebbe giusto, trattandosi di tematiche che travalicano i confini del mondo psichiatrico, ma in questa sede preferisco restare ancorato alla realtà quotidiana del nostro lavoro e cerco di spiegare concretamente cosa intendo.
Penso che capiti a tutti gli operatori di vedere pazienti chiaramente incapaci di gestire la propria vita, gravemente a disagio nel muoversi nel mondo, di gestire rapporti, attività, responsabilità, non per mancanza di intelligenza o di singole abilità, ma, diciamo così, per debolezza interna. Sono quei pazienti che, nei casi più gravi, abbandonano lavori, perdono contatti personali, si dedicano ad attività sempre più autocentrate, autoreferenziali e tendenzialmente autodistruttive, fino a ridursi a stare quasi sempre in casa, magari a letto, invertendo giorno e notte, a rimuginare su cose inesistenti, a litigare con la madre.
Ebbene, come vengono inquadrati questi fenomeni, spesso collegati a intensa sofferenza e gravemente invalidanti?
Non è raro, anzi è diventato quasi normale che la diagnosi in questi casi sia, alternativamente o in associazione, una delle seguenti: “fobia sociale” (perché il paziente non esce di casa), “attacchi di panico” (perché è angosciato di fronte a qualunque impegno esterno), “discontrollo degli impulsi” (perché picchia la madre), “disturbo bipolare” (perché in certi periodi è più cupo o più logorroico che in altri), “disturbo ossessivo compulsivo”(perché, stando a letto, conta le mosche che vede passare), “disturbi dell’alimentazione” (perché si ingozza in maniera disordinata e preferibilmente alle tre di notte) oppure, in mancanza di altro, “disturbo di personalità”, etichetta aggiuntiva che, giustamente, non si nega a nessuno (e neanche a ciascuno di noi, s’intende!).
Nei casi più leggeri avviene lo stesso, con la differenza che certe discrepanze (per non dire assurdità) sono meglio mascherate e talvolta diventano quasi credibili.

Perché succede questo, che rappresenta, a mio avviso, un uso perverso della diagnostica psichiatrica, volto a occultare i fenomeni, anziché a chiarirli?
Non mi addentro, ripeto, nelle cause profonde, di natura socioculturale e addirittura antropologica, capaci di inquinare la Psichiatria più che altri campi e cerco piuttosto di capire le motivazioni più immediate, che sono varie.
Alcune motivazioni sono palesi e nobili, seppure non sempre condivisibili, come per esempio l’istanza di non creare stigmi (soprattutto negli adolescenti e nei giovani), non traumatizzare oltre il necessario i famigliari, non dare gratuitamente patenti di “pazzo”, “incurabile” e simili.
Altre motivazioni sono pure comprensibili, ma meno limpide, come l’esigenza dei Servizi Psichiatrici di non farsi carico di nuove rette di degenza: un orientamento diagnostico “negazionista”, che permette di ridurre sulla carta i bisogni assistenziali e quindi di risolvere qualche problema di bilancio… Spesso funziona, almeno sul momento…
Altre esprimono un’impotenza (che in certe situazioni è obiettiva, lo sappiamo) dell’operatore: cosa cambia se la diagnosi è una o l’altra, quando poi quello che si può fare è poco o niente, al di là della prescrizione di qualche stabilizzatore e di qualche neurolettico?

Ma in molti altri casi la motivazione è purtroppo una sola: la realtà del paziente sottostante ai sintomi non viene ritenuta importante, anzi, addirittura, non viene rilevata!
E qui veniamo al dunque!
Cos’è che non viene visto e perché?
Il fatto che i sintomi, tutti i sintomi rilevabili e ben descritti dal DSM-IV, assumono consistenza intrinseca, importanza clinica e sociale, ma soprattutto minore o maggiore potere invalidante in funzione del modo più o meno patologico in cui vengono elaborati e gestiti dall’io del paziente: conosciamo tutti moltissimi pazienti che, nonostante fenomeni compulsivi, ansie, sbalzi emotivi di vario tipo e addirittura deliri e allucinazioni, riescono a mantenere un lavoro, ad essere autonomi e anche consapevoli del loro stato. E conosciamo tutti un numero altrettanto grande di pazienti che, pur in assenza di qualunque sintomo o problema del tipo suddetto, sono di fatto totalmente disabili.
In altre parole, sintomi psichiatrici obiettivabili ed effettiva disabilità complessiva sono in larga misura scorrelati: si intersecano variamente, si sovrappongono e si modificano reciprocamente, ma, almeno in base alla mia esperienza, non al punto per cui a un quadro clinico (per esempio un disturbo delirante) corrisponda una certa prognosi sociale. In sostanza, cioè, il tipo e l’entità dei sintomi, presi separatamente, non permettono né una predizione sulla futura disabilità del paziente, né la formulazione di una linea terapeutica efficace, se non dopo una lunga e approfondita osservazione e complesse considerazioni psicologico – cliniche.
Considerazioni che devono avere per oggetto, non i sintomi, ma le modalità più o meno psicotiche in cui i sintomi stessi (anche internistici o di altro tipo) e i comportamenti, come la vita del paziente nel suo complesso, vengono gestiti.

Io uso il termine “psicotico” in senso intenzionalmente molto lato e mal definito, per indicare un funzionamento dell’io non solo insufficiente, ma, per così dire invertito, che invece di conciliare e contenere le istanze divergenti (interne ed esterne), sparge nell’ambiente i propri contenuti mentali scissi e divenuti discordanti; invece di smaterializzare i vissuti li concretizza e li passa all’atto; anziché compiere la sua funzione basale di garante dell’identità del soggetto in mondo estraneo e mutevole, produce alienità, distanza e incomunicabilità.
Il processo psicotico è una sorta di “esternalizzazione” dell’identità, un’ardua ricerca di individuazione passiva, delegata all’ambiente circostante e destinata a sostituire l’incapacità o la non-disponibilità ad autodefinirsi.
E’ un progetto che, se non riesce (ed è difficile che riesca, per intrinseca paradossalità e per scarsa tenuta delle persone circostanti), ottiene l’effetto di inquinare l’ambiente stesso, ivi compresi gli osservatori e gli strumenti stessi dell’osservazione, a meno che questi non pongano il focus del proprio intervento non sull’obiettività dei fenomeni, bensì sull’intero campo interattivo tra il paziente e il suo contesto, compreso, appunto, il gruppo curante stesso e chi ha il compito di fare la diagnosi!
E’ chiaro che queste peculiarità di funzionamento dell’io psicotico impongono una cautela tutta particolare e una serie di precauzioni e di misure preventive, volte, prima ancora che a curare o a diagnosticare, a mantenere integro l’apparato diagnostico-terapeutico stesso, facilmente preda della patologia.
Le procedure preventive  sono numerose. Rimando chi fosse interessato, al mio lavoro “Dieci anni di attività cognitive in comunità terapeutica” reperibile nella sezione PUBBLICAZIONI di questo sito.
A questo scopo, diventa soprattutto importante l’atteggiamento di fondo dei curanti e la consapevolezza che il contatto col paziente può avvenire solo se viene superato un rapido “esame di idoneità” da parte sua, volto a capire se il curante stesso si districa nel suo ginepraio mentale meglio di lui o… peggio.
Tale check preliminare (da parte del paziente nei confronti del curante) è molto professionale e avviene sostanzialmente sulla base di quanto detto nei precedenti punti di questo blog.
Il paziente vuole assicurarsi che noi siamo in grado di:
– agire senza chiedere il suo consenso, cioè che non subordiniamo la relazione terapeutica e la protezione all’esistenza di un funzionamento mentale superiore a quello che è disposto a dare in quel momento (v. punto 1);
– mettergli e fargli rispettare con intransigenza e, se occorre, anche con una certa severità dei limiti, normativi, logici (come differenze tra “giusto” e “sbagliato”) e diagnostici, che interrompano e creino una discontinuità col suo modo di essere e di pensare precedente, facendolo sentire mentalmente contenuto, ma in maniera concreta, tangibile (v. punto 2);
– proteggerlo nelle funzioni e nei rapporti che gli creano problemi (operando “a livello 0”, v. punti 3 e 4);
– non sopravvalutare i suoi sintomi apparenti (punto 5, questo), che lui, più di noi, sa essere contingenti e superficiali. Infatti constatiamo che in gran parte si sciolgono come neve al sole, con la permanenza in un luogo adeguatamente “protettivo” (v. punto 3-4) e con un po’ di farmaci ben scelti (peraltro, spesso, non diversi da quelli che prendeva prima).
Se il paziente si accorge che stiamo ansiosamente cercando il suo consenso (formale e sostanziale), e che per ottenerlo siamo disposti a concedere qualunque libertà, che vogliamo anzi che si senta a suo agio e libero di esprimersi come vuole; se avverte che abbiamo bisogno che condivida subito quello che facciamo, prenda posizione, anzi decida lui il suo programma terapeutico (“ti piace dipingere?”); se si fa l’idea che a noi interessa solo attenuare i suoi sintomi superficiali, negando (già attraverso la diagnosi) il baratro che c’è sotto, il rapporto terapeutico è già morto prima di nascere.
La terapia e la riabilitazione consistono nel far sentire fin dal primo momento la nostra intenzione e la nostra capacità pratica di interrompere i meccanismi della patologia e possibilmente invertirli nuovamente in senso costruttivo.
Ma questi meccanismi anomali, per essere curati devono essere visti, “chiamati per nome” e non negati, nella consapevolezza che

– trasparenza, obiettività, concretezza, affettività sobria e contenuta, definizioni, limiti (in tutti i sensi), norme comportamentali, deresponsabilizzazione, ecc. operano in senso anti-psicotico;

– “negazionismo” diagnostico, ambiguità, responsabilizzazione precoce e intempestiva, complicità patologica e intrisa di affettività operano in senso pro-psicotico e sono già esse stesse espressione di qualche forma di contagio (peraltro spesso inevitabile, s’intende, e a tratti anche funzionale).

Tutto questo è in qualche modo pre-contenuto nell’atto della diagnosi: sparare certe diciture esotiche, senza contestualizzarle in modo adeguato (e quindi, a rigore, senza fare diagnosi) mostra i limiti della nostra capacità di capire il paziente e di farcene carico. Non nego però che anche questa possa talvolta essere un’operazione di trasparenza! Un’indisponibilità dichiarata è molto più terapeutica di una disponibilità ambigua e ambivalente.
Però io non credo che diagnosi superficiali ed ingenue come quelle suggerite e favorite dal dall’illusoria obiettività del DSM-IV, nonostante le pur lodevoli intenzioni di coloro che hanno concepito lo strumento, preparino tutti i curanti a gestire la psicosi (compresa quella indotta nel gruppo di lavoro) e a muoversi con sicurezza nel mondo della patologia.
Che è il loro habitat professionale. O no?

 

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