di Giandomenico Montinari
Convegno dell’Ordine dei Medici, Genova, 2010
“Il disagio del medico”
Psicosi occulta e Psicosi indotta
La psicosi occulta è tale in senso stretto, intesa come una difficoltà dell’Io a svolgere il suo compito di integratore dell’esperienza dell’individuo (tra dentro e fuori, tra emisfero destro e emisfero sinistro, tra passato e presente, tra mio e tuo), compatibilizzatore dei conflitti e delle contraddizioni, e base della costruzione del pensiero complesso (simboli, spazialità, temporalità, identità, ecc.).
E’ una condizione di parziale scollamento, frammentazione, di deriva di ambiti della personalità, perdita di complessità e scoordinamento tra le parti e soprattutto tra il mondo interno del paziente e ciò che lo circonda.
Ci sono casi, molto numerosi (al limite tutti noi, in situazioni estreme) in cui tutte queste funzioni si indeboliscono, ma non al punto da dare sintomi clinicamente evidenti, né di tipo nevrotico, né di tipo psicotico.
Come si fa la diagnosi?
Non ci sono sintomi psichiatrici, se non estremamente aspecifici, come, forse, momenti di maggiore ansia, depressione larvata, talvolta stancabilità, irritabilità e poco più…
I segni indiretti evidenziabili ci sono ma vanno ricercati altrove:
– l’accentuazione di altri sintomi (mentali, organici, psichici, praticamente tutti, dall’emicrania all’obesità, dall’insufficienza mentale alla depressione, dall’ulcera all’epilessia agli abusi di sostanze…….), ma soprattutto il loro diventare rigidi, immodificabili, resistenti alle terapie, praticamente incomprensibili ecc.
– disabilità sociale relativa di varia entità (attribuita a fallimenti, lutti, abbandoni, difficoltà, oltre che alle malattie presenti o anche a posizioni ideologiche). La disabilità non è, appunto, totale, ma solo relativa alle potenzialità del paziente: lavori inferiori alle possibilità, rifiuto di ruoli di maggiore responsabilità e simili.
– comportamenti anomali nell’ambiente che circonda il paziente (famigliare, lavorativo, residenziale): alta emozionalità espressa, ecc., vissuti persecutori, atteggiamenti rivendicativi verso qualcuno (il curante stesso o un suo collega…), aspettative e richieste magiche, oppure atteggiamenti coinvolgenti sul piano personale… O tutte queste cose contemporaneamente… La malattia non viene accettata per quello che è, ma è sempre vista come colpa di qualcuno o di qualcosa o colpa propria (dei famigliari) ed elaborata in maniera altamente emotiva.
I segni specifici, pure, ci sono, ma non sono facili da evidenziare, perché richiedono un’osservazione attenta ed esperta.
Possono essere genericamente definiti come forme di scollamento logico, percettivo, affettivo. Si osserva una sconnessione dei vissuti, la presentazione di parti scisse e separate dei problemi, la cattiva gerarchizzazione dei contenuti: cose banali dette prima e con più enfasi di quelle importanti. (Storia dei cani)
I nessi di causa/effetto sono vacillanti o invertiti (smetto di prendere la medicina, così sto bene), sto male perché vado dal medico… In genere individuazione di cause semplici ed esterne (un avvenimento, un fatto,una persona…).
Spesso vere difficoltà cognitive, intese come difficoltà di studiare e concentrarsi, difficoltà a sequenziare, definire e a staccare le cose. Problemi a dare alle cose il loro giusto valore: insistenza su particolari secondari, difficoltà di vedere le cose complessivamente, gestendo le contraddizioni e discrepanze, tendenza al pensiero tangenziale (associazioni non pertinenti, per affinità formale o per risonanza emotiva…), rigidità di pensiero in base a criteri prestabiliti o, al contrario,
Tendenza a spunti persecutori o a pensiero bizzarro.
Coinvolgimento emotivo anomalo: sentimenti inadeguati (incongrui o di segno opposto) o parziali (rivolti solo a un aspetto del problema), oppure sentimenti di affiliazione (troppa indulgenza e confidenza, ecc.), seduzione professionale (“lei è il migliore…”) oppure svalutazione e rigetto del medico. O freddezza e indifferenza anomale.
Scarsa critica, ridotto realismo, cattiva percezione di alcuni aspetti della realtà circostante, scissione di ambiti, anomalie del pensiero simbolico e quindi della mentalizzazione e della comunicazione dei vissuti. Attribuzione di significati precaria, scissione anche nello scorporare i significati dai significanti,
Nell’insieme una cattiva mentalizzazione dei vissuti, fatta di insufficiente gestione cognitiva e affettiva, con l’adozione di meccanismi più elementari (inclusione/esclusione), che sopperiscono al cattivo funzionamento complessivo.
Avere rapporti famigliari e professionali non protetti con queste persone espone a quella che io chiamo la psicosi indotta, cioè una psicosi analoga alla precedente, per quanto meno grave e più facilmente reversibile, trasmessa alle persone che circondano il paziente affetto da psicosi occulta.
Il medico di famiglia è quotidianamente esposto a questi fattori patogeni. Gli psichiatri sono un po’ più schermati, come i radiologi, ma spesso, nelle forme più gravi o in quelle meno gravi o meno evidenti, sono coinvolti anche loro.
La cultura medica vigente (evidence based) non solo non aiuta, ma peggiora la situazione, perché induce a cercare dietro e sotto il sintomo (tramite esami settoriali e strumentali sempre più sofisticati, ecc.), anziché attorno e fuori del sintomo stesso.
Decontestualizza il problema, anziché contestualizzarlo. Lo stesso processo di formazione della diagnosi, fondamentale per il medico, in queste situazioni viene reso difficile, pervertito e gioca contro.
In definitiva tutto porta a comprendere sempre meno sintomi e quadri clinici e ad andare nel senso della psicosi.
I meccanismi della trasmissione sono legati alle caratteristiche stesse della malattia: tutte le manifestazioni patologiche suddette suscitano nell’interlocutore meccanismi analoghi o simmetrici: la rabbia suscita rabbia, l’affiliazione suscita sentimenti parentali protettivi, la seduzione lusinga, gli scollamenti e gli errori logici non vengono individuati in tempo reale e i ragionamenti viziati vengoni presi per buoni dall’interlocutore e amplificati.
Si attiva poi un circuito vizioso che peggiora sempre tutto.
Tutto concorre e riprodurre nel medico o in chi per esso una scissione di qualità psicotica, simile a quella del paziente, tanto più se già egli stesso è un po’ incline a un certo grado di scollamento, solitamente contenuto…
I sintomi del medico sono simili:
– irritazione repressa e contemporaneamente fantasie di indispensabilità, con difficoltà a delegare ad altri o semplicemente includere altri nel rapporto
– sentimento di impotenza
– perdita del senso delle cause e conseguenze, minore realismo riguardo a sé e agli altri;
– eccessiva affettività positiva o negativa (affiliazione eccessiva, lusinga o rifiuto del paziente);
– iperresponsabilizzazione terapeutica (indotta dalle aspettative magiche del paziente a dei suoi famigliari), fino alla responsabilità eziopatogenetica della malattia stessa! Il tutto accettato dal medico con una – per lui – inconsueta mancanza di critica;
– tendenza a creare collusioni e intese con qualcuno della famiglia all’insaputa del paziente o, peggio ancora, col paziente stesso, contro gli altri membri;
– raccontare o avallare frottole o promettere cose non mantenibili o assurde;
– difficoltà a capire il caso clinico nel suo insieme e/o “cecità” settoriale per alcune sue componenti;
– alla fine: stanchezza, senso di inutilità, depressione.
La diagnosi (o, meglio, l’autodiagnosi) del curante deve avvenire soprattutto sulla base dei propri sentimenti, cioè dalla constatazione della presenza di sentimenti inusuali e anomali. A chiunque di noi, quotidianamente, succede di trovarsi di fronte a situazioni non modificabili, di non essere o di non ritenersi all’altezza di un problema, ma non per questo proviamo rabbia, frustrazione, impotenza. Tutt’al più rammarico. Al contrario, è giusto e normale sentirsi validi, migliori di altri, ma quando, in particolari condizioni, ci si sente dei padreterni, vuol dire che bisogna cominciare a fare qualche riflessione. Quando ci accorgiamo che stanno prendendo piede questi stati d’animo inusuali e irrealistici, è il momento di cominciare a sospettare l’insorgenza di una psicosi occulta/indotta.
Quando per esempio un curante si scopre a detestare un certo paziente, vuol dire che è già preso all’interno di un meccanismo patologico. In definitiva, semplicemente, non ha capito la reale gravità del paziente, che non è organica e settoriale, ma psichica e complessiva, nega il disagio e le difficoltà, a se stesso e agli altri, e dà risposte inadeguate, a cominciare dal fatto che reprime, non scarica e non condivide i sentimenti con altri.
Il paziente ovviamente peggiora o si irrigidisce nelle sue difese e il medico si esaurisce.
Prevenzione e terapia: il ruolo dell’Istituzione
Intesa in senso lato come il luogo di cura (ospedale o ambulatorio) che circonda la coppia medico – paziente, e, aggiungerei, anche la comunità medica allargata come in questa sede.
L’istituzione avrebbe gli strumenti per curare o, meglio ancora, per prevenire tali disturbi.
Invece, non solo non lo fa, ma li aggrava.
L’istituzione, infatti, se mal condotta, si ammala essa stessa e dà luogo alla Psicosi Istituzionale, che agisce nello stesso senso della psicosi indotta.
A. Patologia del “paterno” (Carenziale)
● perdita dei limiti interni ed esterni
● assenza/eccesso di critica
● aggressività indifferenziata
● contrapposizioni viscerali tra singoli e sottogruppi
● scarso interesse alla realtà esterna
B. Patologia del materno
● indulgenza eccessiva e patologica
● eccessivo ed improprio uso di sentimenti ed emozioni
● “fusionalità” con colleghi e pazienti
● passività e scarsa progettualità
● debole identità individuale, e scarsa indipendenza dal gruppo
● infantilizzazione
C. Patologia dell’io
● Errori nell’ambito del pensiero simbolico
● “Disinvoltura” logica (scollamento tra cause e conseguenze, tra parte e tutto, tempi, ecc.)
● Incapacità di dare significato a ciò che succede e a ciò che si fa
● Incapacità di contestualizzare i particolari ed elaborare situazioni complesse
● Pensiero concreto
● Disturbi dell’identità professionale o anche personale
Rende più elementari i processi cognitivi ed emotivi, con i già menzionati meccanismi di inclusione/esclusione, che, nell’istituzione si traducono in fenomeni di omologazione deresponsabilizante o situazioni di attacco e fuga (cioè di “tutti contro tutti”).
Si creano cioè sacche di iperresponsabilizzazione e sacche di deresponsabilizzazione, accentramento che crea paralisi, difficoltà a delegare, sentimenti di indispensabilità di alcuni e di inutilità di altri, dimuita capacità critica, tendenza ad attribuire all’esterno tutte le responsabilità o a mobizzare un singolo o una categoria, perdita di contatto col reale.
Eccessiva visceralità (o indifferenza) e livello di prestazione più basso.
Si possono anche aggiungere fenomeni quantificabili come maggiore assenteismo, sinistrosità degli operatori o, nel caso di strutture psichiatriche, aumento degli agìti e dei ricoveri tra gli ospiti.
Cito solo alcuni semplici espedienti difensivi, laddove si comincino ad avvertire i suddetti sintomi iniziali della psicosi indotta, tenendo presente che delegare lo psichiatra o lo psicologo non sempre è la soluzione adeguata, anzi può essere addirittura peggiorativa: il lavoro deve poterlo fare il medico stesso!
– Evitare situazioni di isolamento, a favore di situazioni duali o multiple.
– Esternare i propri sentimenti anomali, eventualmente anche al paziente e ai suoi famigliari, nel senso di adottare una maggiore trasparenza, fino alla confessione di impotenza e al ritiro dal campo (utile terapeuticamente)
– Non lasciarsi responsabilizzare troppo e includere sempre altre persone, compresi i famigliari e, indirettamente, quando possibile, il paziente stesso, nelle operazioni diagnostico-terapeutiche e decisionali.
– Adottare in genere una cultura della trasparenza, priva di non detti, di rapporti particolari, di intese speciali con uno o più membri della famiglia.
– Non lasciarsi mettere nel ruolo di dispensatori di certezze e di rimedi certi: sapersi anche dichiarare incompetenti
– Saper uscire dal campo (che non vuol dire scappare) e saper delegare altri e sentire il parere di
altre persone.
– Sospendere l’azione e creare lo spazio per riflettere e far riflettere.
A scopo preventivo ogni gruppo di lavoro dovrebbe curare molto certe norme, come
– evitare sovraccarico sulle figure apicali, sdoppiarle dove possibile e comunque
– non esporre le figure apicali in prima linea, quindi
– responsabilizzare tutti gli altri
– sdoppiare i ruoli, creare reparti e non persone adibite a qualcosa
– fare lavoro di équipe regolare e preventivo e articolato
– diversificare gli approcci allo stesso problema
– aumentare gli scambi con l’esterno
La psicosi occulta andrebbe trattata come la psicosi che tutti conosciamo, cioè in gruppo con un intenso lavoro di équipe, volto a ricomplessificare ciò che ci viene presentato come semplice e, viceversa, a dipanare, cioè rendere chiaro e semplice, ciò che viene presentato come inestricabile.
Due operazioni apparentemente opposte, che vicariano il carente lavoro dell’io del paziente.
– saper dire di no ai pazienti
– dare molta importanza al rispetto delle regole e dei diritti degli altri
– ricostruire pazientemente il concetto di “altro” e di “altrui”
– presentarsi articolata al suo interno: coesa, sì, ma non monolitica
– incorporare dialetticamente atteggiamenti divergenti
– esprimere approcci diversi: essere “padre” ed essere “madre”
– presentare approcci diversificati, dal contatto col fuori allo spazio privilegiato
– aprirsi all’esterno il più possibile, secondo le possibilità del paziente
– essere “ambasciatori della realtà” e delle ragioni della società
– coinvolgere i pazienti in maggiori prese di coscienza e di responsabilità
– farli interessare alla realtà esterna (gruppi di discussione, ecc.)
2) Di fronte alla tendenza alla fusionalità (patologia del “materno”) e all’emotività trabordante
– far fare esperienze di genuino maternale
– capire l’importanza dei colloqui e di altre esperienze individualizzate
– sviluppare genuina affettività
– saper dare attenzione al singolo, anche “contro” il gruppo in certi casi
– individuare e istituire spazi individualizzati, ma circoscritti
3) Di fronte ai problemi dell’Io
– deve presentarsi visibilmente unitario e dotato di una forte identità
– presentare attività non direttamente centrate sui sintomi
– proporre un programma terapeutico unitario e internamente coerente
– fare molto lavoro di équipe e far vedere che lo fa
– prendere decisioni meditate e condivise da tutti gli operatori
– avere una intensa vita culturale, di ricerca, di ludus istituzionale, divertirsi nel
lavoro.
– far sempre riferimento a una persona adulta potenzialmente in grado di gestirsi
– creare aree di alternativa e di messa in discussione dell’esistente