DIECI ANNI DI LAVORO COGNITIVO IN COMUNITA’ TERAPEUTICA
(G. Montinari – “L’ALTRO”, Anno XV, n. 2, Maggio-Agosto 2012)
Summary
Any programme for psychotic patients, whether to cure, to rehabilitate or to evaluate, cannot be put into practice without having first acquired a complete and fully aware control of the working methods of the theraupetic environment in its entirety, from the logical and communicative styles of the treatment groups to the structural components of the programme and organizing patterns, all of which are inevitably destined to deteriorate rapidly, when in contact with the psychosis.
Without this preliminary work, gross errors of evaluation are frequent and consequently there are also errors in how the clinical cases are managed; the most frequent one is to attribute to the sickness the symptoms and pathological behaviour put into practice by the patients to test or to try to modify the treatment group’s objective shortcomings (which they perceive with a particular and typical lucidity).
Rehabilitation methods on a cognitive basis cannot avoid this rule and to be applied to seriously ill patients, they have to be carefully rethought, to include parameters which are not normally taken adequately into consideration.
This is a ten-year report on cognitive work with 120 patients in seven theraupetic communities where the rehabilitation programmes were constructed specifically for the particular needs existing in those contexts.
The results, obviously not demonstrable, consist in a general all-round wellbeing, plus an improvement in the patients’ confidence and resolve, an unavoidable premise for an increase in their living and social autonomy, which has indeed occurred in a considerable number of cases.
Riassunto
Qualunque programma, terapeutico, riabilitativo o di valutazione, destinato a pazienti psicotici, non può essere messo in atto senza aver prima acquisito un profondo e consapevole controllo delle modalità di funzionamento dell’ambiente terapeutico nel suo complesso, dagli stili logici e comunicativi del gruppo curante alle componenti strutturali del programma e dell’impianto organizzativo, tutti inevitabilmente destinati ad un rapido deterioramento nel contatto con la psicosi.
In assenza di tale lavoro preliminare, diventano frequenti grossolani errori di valutazione e quindi di conduzione dei casi clinici, a partire da quello, frequentissimo, di attribuire alla malattia, anziché all’insufficiente capacità di contenimento da parte del contesto di cura, sintomi e comportamenti patologici, messi in atto dai pazienti proprio per saggiare o tentare di modificare le obiettive carenze dei curanti, che essi percepiscono con particolare e tipica lucidità.
Le metodiche riabilitative su base cognitiva non sfuggono a questa regola e, per essere applicate a pazienti gravi, devono essere attentamente ripensate, includendo parametri che di solito non vengono adeguatamente presi in considerazione.
Viene riportata un’esperienza decennale di lavoro cognitivo con 120 pazienti ospiti di sette comunità terapeutiche, in cui i programmi riabilitativi sono stati costruiti in funzione delle particolari esigenze vigenti in tali contesti e quindi, soprattutto, nel rispetto prioritario di una serie di criteri logici e organizzativo – comportamentali da parte dei curanti.
I risultati, ovviamente non obiettivabili, consistono in un miglioramento del clima generale, della fiducia e della propositività dei pazienti, premessa ineliminabile perché possa essere prefigurato un incremento della loro autonomia abitativa e sociale, che si è effettivamente verificato in un numero considerevole di casi.
Premesse teoriche
Dai primi lavori di Brenner degli ultimi anni Ottanta vi è stata una produzione ormai vastissima e raffinata di lavori e di ricerche, in base alle quali viene dato ormai per assodato che quasi tutti i malati mentali hanno deficit cognitivi, con il loro corrispettivo di tipo anatomico-cerebrale, deficit che spesso precedono gli episodi più propriamente psicotici e persistono al loro cessare.
A partire da questi risultati, numerosi interventi riabilitativi su base cognitiva vengono proposti come efficaci nel trattamento delle psicosi e della schizofrenia in particolare, con l’intento di migliorare l’adattamento sociale e le capacità lavorative e relazionali dei pazienti.
Una constatazione, tuttavia, è in palese dissonanza con tale messe di ricerche e con l’indiscussa rilevanza scientifica di molti dati: è la pressoché totale inapplicabilità delle proposte a pazienti ospiti di comunità psichiatriche.
Ciò viene spesso ignorato o giustificato col fatto che si tratta di ricerche, tutto sommato, ancora ai primordi o, in un’ottica più pragmatica, con la necessità di prendere atto che, nella schizofrenia oltre una certa gravità, il lavoro di recupero intensivo è comunque difficile, incerto e scarsamente proficuo.
Non riesce facile però escludere altre spiegazioni, connesse col dubbio che tale difficile trasposizione in programmi realmente attuabili sia resa impossibile dalla debolezza epistemologica di certa premesse, che, incorporate nelle ricerche e capaci di propagarsi come virus informatici alle successive applicazioni, si rivelano alla lunga distruttive.
Mi riferisco alla vecchia tentazione “riduzionista”, evidentemente ancora non superata, in base alla quale si ritiene di poter capire e controllare fenomeni clinici molto complessi, come il confronto con la psiche e con la psiche malata in particolare, in base a strumenti semplici, per esempio in base a dati della ricerca sperimentale, trasferiti senza mediazioni nella clinica. Vengono così suffragate ipotesi come quella in base alla quale una psicosi, instauratasi per il disfunzionamento di un processo di base di qualunque tipo, per esempio cognitivo, sia trattabile ripercorrendo un tragitto analogo, cioè individuando e correggendo isolatamente il problema originario, con le classiche modalità del bottom-up.
Certo, l’apparente semplicità della sintomatologia psicotica e l’elementarità dei comportamenti destrutturati dei pazienti, sono tali, per chi ha con loro scarsa frequentazione, da favorire questo e altri equivoci, come quello che il paziente passivo, ritirato, privo di iniziative, quello che definiamo “cronico”, possa essere reso attivo e propositivo supportando gli strumenti di organizzazione della sua operatività mentale relativa al fare, come la working memory.
Tutte ipotesi plausibili, beninteso, e teoricamente compatibili con i dati della ricerca, ma irrimediabilmente lontane dalla realtà concreta della vita comunitaria.
Non è qui il caso di chiamare in causa i grandi temi dell’Epistemologia classica o il Principio di Indeterminazione di Heisenberg.
Basta molto meno: è sufficiente rendersi conto che, quando in un singolo quadro clinico o in un ambiente terapeutico compare la psicosi (anche nelle forme subdole e oligosintomatiche, che io chiamo “psicosi occulta” e “psicosi indotta”), entrano in gioco ben altre forze, di ben altra entità, rispetto a quanto ipotizzato.
Non solo e non tanto perché, già sul piano neurobiologico, ci si deve confrontare con una complessità difficilmente controllabile, basata su una pluralità di fattori causali (molti della quali ancora sconosciuti), una non-specificità dei percorsi, una circolarità delle determinanti e degli effetti tra vari livelli di elaborazione. Ma soprattutto per il fatto che, una volta che la psicosi si è instaurata, sintomi e comportamenti dei pazienti (e anomalie indotte in chi ha rapporti con loro[1]) fanno riferimento non più ai moventi eziologici iniziali (laddove siano effettivamente individuabili), bensì ad un altro fattore, di natura complessiva e contestuale, in cui confluiscono indistintamente tutte le determinanti e i nessi causa-effetto, che non sono più scindibili, né in senso eziopatogenetico (nel formare il sintomo), né in senso terapeutico (nel curarlo).
Succede cioè che problemi cognitivi, sintomi, comportamenti patologici, stili di pensiero e, nella fattispecie, modalità relazionali, forme di convivenza e interventi diagnostico – terapeutico – riabilitativi si colleghino tra loro in un’amalgama pressoché inestricabile, in cui risulta molto difficile, per esempio, discernere sintomi “costruiti” da sintomi “su base biologica”, cause da conseguenze, aspetti oggettivi da aspetti soggettivi, patologia “spontanea” da patologia “iatrogena”.
Affrontare una realtà di questo tipo senza le necessarie precauzioni, con la pretesa di discernere e trattare separatamente i singoli aspetti (e i loro presunti fattori causali), è un’operazione ingenua e pericolosa, oltre che di fatto impossibile.
C’è, tra l’altro, il forte rischio, se non la certezza, che l’osservatore constati nel paziente l’esistenza di sintomi e di anomalie, da lui attribuiti univocamente alla malattia, ma in realtà creati dai propri comportamenti o quanto meno dall’omissione di misure protettive importanti e doverose.
Il problema consiste nel fatto che è tutto l’apparato che sostiene la relazione ad essere in stato di sofferenza e privo di qualunque affidabilità: esso include la capacità di lavorare sul simbolico, di condividere contenuti e consapevolezze, creare consensualità, attribuire significati (e quindi leggere e far leggere segni e sintomi), porsi come soggetto e partner di una relazione e compiere tutte quelle operazioni che fanno appello alle funzioni superiori della mente (dei pazienti e degli operatori).
Operare, avendo questa dimensione in stato di sofferenza, costituisce una limitazione molto grave. Per il paziente, innanzi tutto, ma anche per il curante, che non può assolutamente né ignorarla né trascurarla.
Tenerne conto, invece, impone una risposta operativa a due facce:
- sospendere e rimandare le operazioni sui significati e sulla relazione, come quelle di lettura del quadro clinico-relazionale e comportamentale che vadano al di là della pura constatazione dell’esistenza di una psicosi; quindi diagnosi psichiatriche e mediche, letture psicodinamiche di qualunque tipo, valutazioni psicodiagnostiche, assessment vari, interpretazioni biografiche e sociodinamiche; occorre rimandare anche interventi che richiedano consenso esplicito e progettualità comune tra curante e curato, che abbiano cioè bisogno di fare stabile assegnamento su qualunque forma di consensualità, condivisione dei contenuti e delle strategie, corresponsabilità, collaborazione, e che non siano tali da poter essere condotti, per tempi lunghi e imprevedibili, in maniera paradossalmente unilaterale.
- Lavorare preventivamente e intensamente su tutte le variabili strutturali dell’ambiente di cura (v. nota[2]), del gruppo di lavoro, del programma terapeutico, allo scopo di creare un ambiente a complessità ridotta e controllata, che sia il meno possibile inquinato e inquinabile da problemi di cattiva simbolizzazione. Questo aggirare le difficoltà dei pazienti evita, da parte loro, gran parte delle forme di elaborazione patologica dei contenuti e quindi la produzione di sintomi.
Le conseguenze tattiche e strategiche di questa duplice premessa sono molto rilevanti e implicano, come si può ben capire, un grande sforzo logico e organizzativo.
Non è facile, per esempio, per uno psichiatra sospendere temporaneamente qualunque operazione diagnostica e terapeutica, apparentemente facile e immediata e inoltre subordinarla a valutazioni complessive e anche al rischio di un impietoso ridimensionamento del proprio ruolo professionale. Così lo psicologo e il riabilitatore difficilmente resistono alla tentazione di mettere subito in atto letture e procedure di loro competenza, che sembrano immediatamente richieste dalla situazione, senza sottoporle a una valutazione di gruppo, complessiva e contestuale e soprattutto a una drastica relativizzazione di ciascuna.
Ed è molto difficile per tutti operare in assenza di consenso stabile, con un interlocutore capace di modificare continuamente la chiave di lettura di tutto ciò che dice e fa e addirittura di rendere evanescente la sua stessa presenza come soggetto consapevole e partner di una qualsiasi interazione.
Ma è difficile anche acquisire il controllo delle variabili strutturali del contesto di cura, allo scopo di lavorare al livello di destrutturazione funzionale al quale ciascun paziente si muove[3] e quindi anche (come conseguenza e non come premessa) per incontrarlo come soggetto e come interlocutore.
Le strutture da sottoporre a continuo controllo sono numerose. Per esempio:
– Rigorosa gestione dei limiti di cose e persone:
1) creazione dei confini (fisici e tecnici) dell’istituzione e del programma terapeutico e loro difesa dalle interferenze esterne non concordate (famigliari, curanti esterni, “amici”) ed interne (pazienti e curanti in stato di sofferenza), allo scopo di istituire e rinforzare la differenza tra “dentro” e “fuori”, a cominciare dal controllo delle uscite e delle entrate di tutti, fisiche, verbali, telefoniche;
2) lavoro sui limiti individuali di ciascuno: contestazione e contenimento (talvolta anche fisico e in tempi reali) di anomalie comportamentali e stili espressivi impropri (anche e soprattutto quelli dei curanti);
3) rispetto delle regole della convivenza (separare “mio” da “tuo”, privato da pubblico);
4) scollamento o sospensione dei nessi tra processi volitivi e azioni corrispondenti, cioè esecuzione di compiti determinati e diretti dall’esterno, prescindendo dal gradimento o meno del soggetto;
5) restringimenti spazio-temporali e logici attorno a quello che si fa, cioè definizione di ambiti e percorsi.
– Qualità della comunicazione e comportamento degli operatori:
1) aderenza alla realtà e alla concretezza;
2) formulazioni univoche, che non richiamino livelli di lettura superiori;
3) totale trasparenza e assenza di ambiguità: fare quello che si dice e dire quello che si fa;
4) assenza di doppi messaggi;
5) affettività sobria e contenuta entro ambiti circoscritti e chiari.
– Funzionamento del gruppo, gestione della leadership e della decisionalità:
1) unitarietà di conduzione e sintonia di comportamento tra operatori;
2) lavoro di équipe inteso come ridimensionamento reciproco degli approcci e apertura di prospettive, anziché come chiusura (tramite diagnosi, definizioni, pregiudiziali di vario tipo);
3) deleghe operative ai singoli, coordinate ma molto ampie;
4) leadership forte, ma esplicata più sul funzionamento dell’apparato che sulle letture e sulle scelte operative;
5) assenza di distinzione tra operatori “di concetto” ed “esecutivi”;
6) approcci differenziati e paralleli, ma non direttamente confluenti.
– Ampiezza della struttura e fattori architettonico – spaziali:
1) sufficiente ampiezza del gruppo operatori – pazienti, per evitare il più possibile comunità troppo piccole, che rinforzano in modo incontrollabile le spinte centripete verso la globalità e non favoriscono l’introduzione di limiti e norme e l’articolazione in sub-unità (v nota[4]);
2) conformazione architettonica della struttura terapeutica, in grado di abbinare sapientemente contenimento protettivo e apertura, spazi ampi e comuni e spazi piccoli e privati, spazi indifferenziati e spazi specializzati (v. nota[5]).
L’adozione di tali modalità ha un forte ed immediato effetto protettivo nell’ambito dell’istituzione, che riduce fortemente la necessità di produrre sintomi da parte del paziente. Quest’ultimo, vedendo riscontrati (nei fatti) i propri problemi di simbolizzazione vacillante, si sente finalmente capito e può cominciare a mettere in atto forme embrionali, ma autentiche, di comunicazione e quindi di compliance e di progettualità, a dimostrazione che, almeno nel nostro campo, è l’adeguatezza strutturale del messaggio (fino ai limiti del “non-messaggio”) che crea l’interlocutore e non viceversa.
E’ necessario però adottare una complessità di pensiero e di approccio atta a contenere nella sua globalità e a vicariare ciò che è stato messo in sospensione e quindi tutte le operazioni sui significati e sulla relazione (v. sopra).
Compito non facile, perché implica la capacità di muoversi in un mondo rispondente a leggi proprie, a scale di valore peculiari e spesso invertite, a tempi e modi alternativi. Tali peculiarità si traducono in strategie terapeutiche e modalità relazionali molto diverse, non riconducibili al tradizionale rapporto medico – paziente e tali per cui, in loro assenza, termini come “collaborazione”, “consenso”, “condivisione” e addirittura “cura” diventano formulazioni prive di senso comune.
E prive di efficacia pratica, perché i pazienti sono attentissimi a valutarne la presenza o meno e concedono la loro reale compliance (e quindi la possibilità concreta di mettere in atto un intervento terapeutico o riabilitativo o anche di somministrare una scala di valutazione) solo a chi dimostra, nei fatti e non nelle intenzioni, di saper entrare nel loro mondo e di essere in grado di riscontrarne le particolarità di funzionamento.
Quando determinati criteri vengono rispettati, i miglioramenti ci sono e sono immediati, sincronici e globali, come ricaduta (positiva, in questo caso) della non scindibilità dei vari fattori eziopatogenetici, per un verso, e terapeutici, per l’altro verso.
Va da sé per contro che, laddove appaia chiaro che un ricercatore è privo di queste consapevolezze, i metodi riabilitativi proposti e le ricerche retrostanti, nonostante la bellezza formale e l’uso di acronimi suggestivi, perdono, agli occhi del clinico e del riabilitatore esperto, interesse e in definitiva anche credibilità scientifica.
Riassumo quelli che a me sembrano i punti critici del discorso, corollari, reciprocamente interconnessi, di quanto su accennato. Sono elementi di importanza fondamentale e dirimenti, che di solito non vedo adeguatamente riscontrati, né nella letteratura, né nella prassi.
- Comportamenti patologici, sintomi schizofrenici (positivi e negativi) e stili adattativi dei pazienti, quando una psicosi si è instaurata, non dipendono più direttamente da fattori eziologici isolati, ma sono largamente funzione di variabili complessive e contestuali, sono cioè relativi ad un fattore unico (la psicosi stessa) e a quanto e come esso viene mentalmente contenuto e gestito (o, viceversa, amplificato) dall’ambiente di vita del paziente nel suo complesso (la famiglia, la struttura o il gruppo in cui è inserito, includente l’osservatore stesso). Sappiamo che, se il contenimento è sufficientemente alto, come accade in una comunità ben condotta, i sintomi perdono gran parte della loro evidenza e non di rado scompaiono quasi del tutto. La loro diminuzione o scomparsa è talmente marcata che molto spesso, trascorso un po’ di tempo, risulta difficile al medico di comunità confermare o meno le diagnosi di entrata dei pazienti, per pura e semplice mancanza di evidenze, al di là di qualche nucleo delirante accuratamente incistato o qualche fenomeno dispercettivo, molto ben controllato dal paziente. Se il contenimento, per contro, è basso e scadente, i sintomi aumentano di intensità. Tali effetti, positivi e negativi, sono aspecifici, globali e si esplicano simultaneamente in ambiti diversi del quadro clinico-comportamentale: solo in parte essi dipendono dal trattamento farmacologico, che per lo più non è diverso da quello praticato prima dell’inserimento in comunità; in larga misura sono determinati dal solo fatto di essere in comunità, cioè in un luogo dove molte variabili ambientali sono (o non sono) consapevolmente controllate.
- Il controllo dell’insieme delle variabili ambientali forma quel “fattore protezione”(v. nota[6]), che è la caratteristica inconfondibile di un ambiente psichiatrico, risultante dialettica e dinamica di molte componenti, ma, alla fine, realtà unitaria, complessiva e aspecifica. L’aspecificità riguarda sia metodi sia i contenuti e consiste nel fatto qualsiasi intervento e qualsiasi metodo, applicato a pazienti psicotici, allorquando opera attorno al paziente un restringimento di ambiti percettivi (e anche fisici), una riduzione della complessità decisionale e operativa, una sospensione di implicazioni emotive paralizzanti, per esempio quando introduce successioni preordinate e decontestualizzate di operazioni mentali, ha, spesso inconsapevolmente per l’operatore, un effetto protettivo e attiva i meccanismi connessi a tale stato: sentimento di rassicurazione, maggiore capacità di prestazione settoriale, maggiore propositività, riattivazione di interessi. La maggiore “normalità” che si ottiene non è legata né al metodo, né ai singoli contenuti, ma dipende – in maniera contingente e passiva, beninteso – solo dalla maggiore protezione strutturale, quella generale dell’istituzione e quella specifica, aggiuntiva, connessa al singolo intervento. E’ importante essere consapevoli della sua aspecificità, per non essere indotti nell’errore, molto comune, di sopravvalutare causalità settoriali e parziali, o addirittura irrilevanti.
- La maggior parte delle variabili contestuali che rendono percepibile (e quindi creano) per gli ospiti la protezione comunitaria, hanno carattere strutturale. Ciò che forma una base di convivenza e di lavoro terapeutico con i pazienti non è, all’inizio, qualcosa di legato alla relazione, come sentimenti, convinzioni, contenuti di qualunque tipo, atteggiamenti interiori, principi etici o metodologici, motivazioni da confrontare e condividere, bensì la presa di contatto tra le particolari modalità percettive dei pazienti[7] e le costituenti basali dell’organizzazione e del modo di funzionare del gruppo di lavoro. Questa è l’unica forma di interazione significativa che i pazienti sono in grado di mentalizzare, date le loro difficoltà di simbolizzazione e costituisce la base di una sorta di particolarissimo “dialogo” con loro, l’unico che possiamo mettere in atto, nelle fasi iniziali della terapia. Si tratta di realtà parziali, concrete e tangibili (“cose”, anziché rapporti e contenuti), rappresentate, per esempio, dall’unitarietà (chiara e percepibile) dell’organizzazione e dei suoi confini, dal sentire contenuta la propria emozionalità, dalla conformazione architettonica dell’ambiente, dall’impianto organizzativo del gruppo curante, dalle modalità di gestione delle divergenze e della decisionalità, dalla composizione del programma, dalla qualità formale della comunicazione vigente nell’istituzione, e da molte altre. Tutte determinanti per lo più poco considerate, di cui i curanti sono pressoché inconsapevoli. Contrariamente a quanto molti pensano, le modalità, per l’appunto, strutturali di applicazione della metodiche sono più importanti delle metodiche stesse e dei contenuti che esse veicolano, perché sono le sole che i pazienti, dati i loro caratteristici limiti di lettura e di simbolizzazione, riescono a percepire.
- Il miglioramento clinico e adattativo che si ottiene in comunità è non solo aspecifico rispetto ai singoli metodi impiegati, ma anche passivo, funzione solo del controllo (semplificante) che viene esercitato sulle variabili ambientali e della conseguente possibilità (protettiva) offertagli di non dover utilizzare le funzioni simboliche per lui problematiche. L’importanza di tale passività emerge in tutta la sua chiarezza quando il livello di protezione viene drasticamente diminuito (o per dimissione intempestiva dalla struttura o per sovraesposizione maldestra del paziente a fattori stimolanti). Solo un riabilitatore ingenuo e inesperto si stupisce che un paziente “che andava così bene” (in un contesto protetto), una volta normostimolato o sovrastimolato, torni a stare male. O che, al contrario, torni a star bene, una volta reinserito in comunità.
- La riabilitazione consiste nel rendere persistente e attivo quello che in partenza è solo un miglioramento contingente e passivo. Passa attraverso la “stimolazione”, fattore ancora una volta unitario e complessivo, di segno opposto rispetto alla protezione. Consiste nella cauta e graduale richiesta/imposizione all’io (ipofunzionante e messo a risposo dalla terapia) di confrontarsi con una maggiore complessità: gestire fratture, tensioni e incongruenze tra ambiti diversi, tra vuoti, virtualità, differenze, potenzialità inespresse, utilizzando equilibri più avanzati, anziché l’esclusione massiva di porzioni di realtà esterna o interna. E’ a questo punto che acquistano importanza le attività cognitive, in quanto utilizzano il miglioramento passivo da protezione, per far compiere operazioni mentali di “re-inclusione” di contenuti espunti e di strumenti di elaborazione sopiti, che il paziente non è in grado o, più spesso, evita a scopo antalgico, di mettere in atto, perdendone poi progressivamente l’uso. E’ però importante che alle attività cognitive si accompagni il lavoro su molte altre esperienze rimosse, lavoro egualmente destinato a creare problemi all’io sopito del paziente e a tentare di ricomplessificare in tal modo la sua vita. Tali esperienze devono abbracciare uno spettro molto ampio e variabile di possibilità e spaziare dall’esercizio dell’iniziativa e della creatività alla riacquisizione del bello e del piacere, dall’espressione corporea di sé alla scoperta e alla riflessione sulle cose e alla narrazione della propria vita, fino al recupero del gusto di “essere normale”, identificarsi e cooperare con gli altri. E’ importante che lo spazio mentale provvisoriamente sottratto alla psicosi, tramite la protezione ambientale, venga arricchito con esperienze ampie, diversificate e nutrienti, evitando un’altra forma, molto frequente, di doppio messaggio: allagare di contenuti circoscritti e concreti, di banalità quotidiane o addirittura di sintomi un ambito di amplissimo respiro, potenzialmente in grado di contenere tutta la vita della persona. E’ utile inoltre attuare con tutti i pazienti colloqui psicoterapeutici, apparentemente alternativi o dissonanti rispetto al contesto riabilitativo, ma in grado di veicolare messaggi di apertura verso la complessità (v. nota[8]).
- Un processo terapeutico-riabilitativo riuscito sfocia nella modificazione stabile del punto di equilibrio tra la fitness del paziente e l’effettivo livello di complessità ambientale che egli è destinato a fronteggiare. Anche questo punto di equilibrio è generato da molti fattori, ma alla fine è complessivo e unitario e può essere misurato con una buona approssimazione (v. nota[9]). In base a dove si colloca il punto di equilibrio si può avere un’idea alquanto precisa del grado di sovra- o sottostimolazione attuale del singolo paziente. Tale dato ha forti implicazioni sulle modalità e sui tempi di attuazione dei programmi, perché aiuta i curanti a introdurre stimoli qualitativamente e quantitativamente adeguati alla situazione attuale del paziente, sempre in bilico tra una stimolazione eccessiva o intempestiva (che peggiora il quadro clinico e blocca spesso irreversibilmente il progetto riabilitativo) e una stimolazione scarsa o assente (che cronicizza il quadro clinico e ostacola ogni futura, eventuale progettualità). Il punto di equilibrio si modifica con la terapia, anche se in tempi non prevedibili e non sempre necessariamente in senso favorevole al processo.
In base a tutto ciò, qualunque programma rivolto a pazienti schizofrenici, sia esso diagnostico, riabilitativo o di valutazione, non può essere applicato così com’è stato concepito teoricamente, alimentando, tra l’altro, l’illusione di un rapporto senza comunicazione e di una Psichiatria prevedibile e priva di coinvolgimenti. Al contrario deve essere integralmente ripensato, sapendo che il fatto di applicare rigorosamente i criteri suddetti è più importante che cercare di discernere le componenti del quadro clinico ed è comunque indispensabile per la messa in atto del programma stesso.
Il rischio è che un approccio settoriale non protetto e mal integrato si trasformi in una porzione attiva e inconsapevole di un delirio o proceda direttamente verso situazioni di stallo e di impotenza.
La relazione con i pazienti stessi è difficile e complessa, ma non impossibile. Per prendere corpo in maniera non illusoria (cioè limitata ai pazienti più leggeri) e tale da escludere quelli più gravi, deve avere gli strumenti per contenere la loro fluttuante capacità di mentalizzazione e la conseguente, tipica concretezza/astrattezza di pensiero, acquisendo dimestichezza con concetti di natura “ossimorica” come “identità virtuale”, “relazione vicariata” (cioè fare riferimento a una relazione gestita provvisoriamente – e con consapevole paradossalità – in maniera unilaterale, v. nota[10]), “consenso assistito”, nonché “attività passiva” e “passività attiva” e molti altri.
Bisogna saper trattare il paziente psicotico grave, al tempo stesso, come se fosse già la persona che auspichiamo diventi, e per quello che, al momento attuale, è: una sorta di dissociazione controllata, speculare a quella del paziente, che, nel suo rendere occulta e latente, insieme a molte nozioni e abilità, anche la propria identità, rende arduo sia il presumerne unilateralmente la presenza, sia il negarne la possibilità.
Per questo può essere utile “far finta” di insegnare al paziente nozioni e abilità, che egli, in maniera intermittente, “fa finta” di non avere, attuando contemporaneamente una drammatizzazione e un insegnamento reale. Quest’ultimo, però, diventa tale, non per le nozioni che trasmette, ma in quanto operazione strutturale di presa di contatto (assistita ma non eludibile né manipolabile) con una porzione di realtà esterna.
La complessità di pensiero, necessaria per controllare questo mondo, è molto lontana dall’ingenua linearità di certe formulazioni, evidentemente concepite fuori del campo della Psichiatria o riferite a pazienti diversi da quelli che noi vediamo in comunità. Se, per rigidità culturale (di derivazione anglosassone) si ha bisogno di pensare che la relazione col paziente schizofrenico sia in essere nel momento in cui lo si decide (oppure sia, al contrario, impossibile) e che il consenso sia presente ed efficace (oppure sia inesistente), è difficile immaginare che si possa interagire realmente con un tipo di persone che hanno come principale stile relazionale proprio il nascondere e far ricomparire queste realtà e modificare continuamente le chiavi di lettura di quello che si dice e si fa.
Il curante deve saper giocare allo stesso gioco, ma cercare gli strumenti per controllarlo, creando le condizioni perché l’identità sopita o occultata del paziente riemerga, mantenendone consapevolmente la virtualità per periodi di tempo anche molto lunghi (dieci anni, quindici?). E con essa riaffiorino tutte le competenze e le abilità precedentemente rimosse, quelle stesse che fingiamo di insegnargli nelle attività cognitive, che lo curano, proprio perché gli rendono più difficile la rimozione.
La nostra esperienza
Quando, una dozzina di anni fa, cominciammo a studiare la fattibilità dell’approccio cognitivo in un gruppo di sette comunità di schizofrenici e disabili mentali (per complessivi 130 pazienti) già funzionanti da anni, ci trovammo di fronte ad alcune scelte dirimenti.
Premesso che tutti i pazienti erano già immersi in un sistema terapeutico impostato secondo i criteri di contenimento/protezione/stimolazione su menzionati, si trattava di decidere il ruolo da dare a nuove attività su base cognitiva.
Per esempio, quali dovevano essere i punti di attacco delle tecniche: bisognava fare esercizi intensivi centrati su singole funzioni, per esempio, la memoria o l’attenzione o privilegiare funzioni più ampie e quindi tematiche varie, generali, sociali, culturali? Inoltre, come si evince da quanto detto finora, eravamo coscienti che il problema neuropsicologico sottostante ai sintomi psicotici, se doveva essere affrontato, non poteva prescindere dai problemi di gestione, teorica e operativa, della globalità e dei limiti, dell’adeguatezza strutturale, della coerenza e semplicità comunicativa e di tutte le altre impegnative implicazioni insite in tale modo di procedere, a cominciare dalla complessità del pensiero retrostante.
C’era poi il problema degli operatori: bisognava assumere persone specificamente formate (ammesso che si riuscisse a trovarne), ma estranee ad un certo stile di lavoro e sprovviste delle attitudini richieste per interagire adeguatamente con i nostri pazienti? Oppure formare “in casa” a queste tecniche alcuni dei nostri operatori? Era meglio una competenza tecnica specifica, ma scollegata dalla relazione o una formazione superficiale, ma innestata su relazioni forti e adeguate? E poi: dovevano alcuni operatori specializzarsi in questo tipo di interventi e abbandonare la gestione quotidiana della vita comunitaria o continuare a fare una cosa e l’altra?
Tutte queste scelte comportavano implicazioni diverse, da gestire coerentemente in un quadro sistemico.
E inoltre: quanto tempo bisognava dedicare a queste attività, conoscendo la facile stancabilità dei pazienti? E per cicli di quale durata?
Bisognava dedicarsi ai pazienti più gravi o a quelli meno gravi?
Le attività dovevano essere facoltative o “obbligatorie”?
L’incertezza maggiore riguardava il come avrebbero risposto pazienti e operatori: si sarebbero presto sottratti, gli uni e gli altri, ai compiti, considerandoli sgradevoli, inutili, addirittura ridicoli?
Furono esaminati alcuni dei più diffusi metodi cognitivi, come il Social Skill Training (SST), l’Integrated Psychological Therapy (IPT) di Brenner, la Cognitive Enhancement Therapy (CET) Il Neuropsychological Educational Approach to Rehabilitation (NEAR). Tutti ci sembrarono poco applicabili ai nostri pazienti, perché erano evidentemente concepiti per tipi di patologia meno grave o comunque diversa, in contesti terapeutici conseguentemente diversi.
Dovendo scegliere tra non dare le risposte ritenute tecnicamente adeguate e dover rinunciare all’esperienza, si decise di risolvere tutte le perplessità con la logica del “Nodo di Gordio” (quella per cui un nodo divenuto inestricabile va tagliato con la spada) e di far partire comunque alcuni gruppi a scopo sperimentale.
Criteri organizzativi
Si rimandò a tempi successivi l’eventuale intervento specifico sulle singole funzioni, non tanto per timore di insufficienza tecnica, quanto per il fatto che sembrava più proficuo partire da livelli più generali. In secondo luogo, vennero abbandonati i programmi di riabilitazione sociale, perché ritenuti per il momento inapplicabili ai nostri pazienti più gravi e troppo limitati per quelli meno gravi.
Si decise anche di non sottolineare l’aspetto riabilitativo delle attività e privilegiare un taglio normalizzante. Esse furono cioè presentate piuttosto come corsi di apprendimento di alcune competenze e nozioni culturali, utili per vivere nella nostra società, in un range di possibilità molto ampio, dall’alfabetizzazione di base (rifacendosi, letteralmente, ai programmi della prima elementare, come lettura, dettato e far di conto) alla letteratura e alla storia, alla filmologia, all’apprendimento elementare delle lingue straniere.
Va tenuto presente che tutto ciò si sommava e si somma a numerose altre attività, destinate a coprire ambiti molto ampi dello scibile e della personalità. Arteterapia, Musicoterapia, Teatroterapia, gruppi di discussione, erano e sono concepite non solo come sedute interne alle comunità, ma soprattutto come base di partenza per esplorazioni esterne nei rispettivi campi. I gruppi di arteterapia visitano musei, gallerie e atelier di pittori (v nota[11]), i gruppi teatrali seguono gli spettacoli amatoriali della zona e familiarizzano con gli attori dilettanti, i gruppi di discussione visitano le redazioni dei giornali e ospitano giornalisti o altri intellettuali della zona, i gruppi di musicoterapia vanno ai concerti e visitano i laboratori dei liutai, e via di seguito. All’interno di queste attività, per contro, veniva e viene svolto molto lavoro cognitivo: per esempio sulla mimica, la gestualità, la gestione dello spazio grafico e scenico, sull’apprendimento di tecniche pittoriche e musicali, sulla memoria e sull’espressione verbale.
Un lavoro particolare veniva e viene svolto dalla terapia psicomotoria, come laboratorio di esecuzione di movimenti e posture, di gestione dello spazio/tempo e del ritmo e di utilizzo della corporeità nella relazione e nel gioco di gruppo.
Anche le terapie corporee (massaggi, rilassamento, pack[12]) danno il loro contributo al rafforzamento dell’esperienza corporea e al riconoscimento di stati diversi (tensione / distensione, contatto / assenza di contatto, caldo /freddo, ecc.) e sono anch’esse, in buona misura, attività cognitive, oltre che forme di psicoterapia.
Il focus delle attività che stavamo avviando doveva essere un contatto, facilitato dall’operatore e dal gruppo, ma relativamente impegnativo, con un pezzo di realtà, non importa quale, purché chiaro, coerente, costante.
I contenuti dovevano essere scelti in base agli interessi e alle competenze degli operatori, purché rispondessero ad alcuni criteri: richiedessero ai pazienti prestazioni mentali (attenzione, memorizzazione, comprensione…) di complessità variabile e crescente, avessero carattere “scolastico” (e pertanto fossero “obbligatorie” per tutti, con frequenza settimanale), riguardassero coerentemente un certo ambito della vita sociale e culturale.
Gli operatori furono scelti tra quelli che già lavoravano nelle nostre strutture, senza smettere di svolgere le funzioni precedenti.
Tale scelta ha dei motivi precisi.
L’attività all’interno dei gruppi, per i motivi già esposti (cioè grazie a una maggiore protezione strutturale e al conseguente contatto con elementi di realtà precisi e circoscritti), avviene a livelli di funzionamento più elevati (maggiore concentrazione e motivazione, interesse per i contenuti, migliore memorizzazione), creando un gradiente rispetto alle modalità vigenti fuori dell’attività. Se tale gradiente non fosse gestito dalle stesse persone che si occupano della quotidianità potrebbe dar luogo a una di quelle scissioni non controllate che riducono pericolosamente l’effetto protezione.
Per altro verso, è estremamente proficuo che pazienti e operatori condividano in solido i due diversi momenti, compiendo tutte quelle complesse operazioni di abbinamento / compatibilizzazione / integrazione che sustanziano il processo riabilitativo. Praticamente i pazienti si sentono, sì, assistiti e capiti nelle loro modalità più regredite (attuali e/o potenziali, per es. in caso di crisi), ma anche accompagnati e sospinti verso esperienze più evolute; gli operatori vedono i pazienti sotto forme diverse e sono costretti a farsi un’immagine ben più articolata rispetto alla facciata stereotipata, che essi più o meno intenzionalmente presentano di solito.
E’ questo uno dei molti modi per tenere pervi i canali verticali della gestione dei vissuti, quelli che collegano livelli diversi di lettura e di elaborazione.
Gli uni e gli altri si addestrano a pensare in maniera più complessa.
In pratica, con un brevissimo corso, gli operatori capirono immediatamente le consegne e rivelarono quasi tutti competenze e interessi del tutto inaspettati.
I gruppi
Furono attivati prima tre gruppi, ciascuno con un operatore responsabile e cinque o sei ospiti, di livello culturale e cognitivo più o meno omogeneo o almeno compatibile. Col passare del tempo i gruppi diventarono dieci, dodici, fino a venti – ventidue, in sette comunità, coinvolgendo praticamente tutti gli ospiti.
I contenuti riguardavano, come già detto, qualunque ambito dello scibile umano, di carattere geografico, storico, letterario, tecnico, artistico: qualunque cosa, purché interessasse all’operatore, o in cui egli avesse una particolare competenza.
La grande libertà su temi e contenuti doveva sfociare in un “corso” regolare, con una seduta/lezione alla settimana, con l’uso di testi scritti e la richiesta ai discenti di un lavoro di lettura, memorizzazione, organizzazione dei contenuti, verbalizzazione. Un lavoro di tipo scolastico, insomma, rivolto a persone magari già diplomate o laureate, che, praticamente sempre, si guardano bene dal farlo notare, percependo con forza l’utilità di questo lavoro.
Ritenevamo e riteniamo importante che l’argomento sia scelto dall’operatore e non stabilito dal gruppo di lavoro o dalla direzione e che l’operatore stesso sia interessato a questo tipo di attività e ai contenuti.
I temi sono i più disparati, dalla lettura dei “Promessi sposi”, alla storia dei Celti, dalla geografia della Francia o del Veneto, alla semplice alfabetizzazione di base (dettati e lettura) alla grammatica e all’aritmetica elementare. Alcuni operatori si sono spinti a occuparsi di temi molto più specifici, di loro competenza, o semplicemente di loro interesse, trovando sempre rispondenza da parte dei pazienti.
E’ importante ribadire il carattere lineare dell’insegnamento (cioè il fatto di partire da punto e arrivare ad un altro) e non circolare (cioè ripetitività e disinteresse per i risultati effettivi): bisogna quindi verificare periodicamente l’apprendimento con strumenti obiettivi, quali esami, voti, valutazioni.
Il paziente sente che tale approccio si inserisce profondamente nella sua problematica, dandogli un concreto aiuto e una vicinanza in quella che sa bene essere una delle sue difficoltà principali. Questo, non perché pensi di imparare qualcosa (che già sa, peraltro) quanto perché si sente capito e assistito in un problema per lui molto importante, al di là dei suoi “giochi” patologici, della vacillante comprensione del mondo e dall’incerta capacità o volontà di uscire dal proprio isolamento.
Gli operatori hanno sensazioni analoghe e riescono a vedere il loro ruolo come un aiuto concreto, effettivo e persistente, avulso dalla ripetitività un po’ sterile che pervade spesso gli ambienti psichiatrici.
Coloro che svolgono questo lavoro (che non sono tutti gli operatori) si confrontano periodicamente con alcune psicologhe sui problemi metodologici e attuativi e ogni tre – quattro mesi si riuniscono insieme ai loro omologhi e alle psicologhe che svolgono lo stesso lavoro nelle altre comunità, per discutere problemi vari e scambiare esperienze.
Tali incontri, simili a quelli che si tengono per altre attività (approcci corporei, psicomotricità, attività espressive, psicoterapia, sono utili in quanto implementano la consapevolezza e la specificità degli interventi e, alla lunga, riunendo le esperienze e le riflessioni di tutti, permettono la formazione di un vero e proprio metodo, condiviso e complesso, che si discosta in parte dal progetto concepito inizialmente.
I risultati
I risultati più vistosi (e diciamo pure imprevisti) di tale attività si sono resi evidenti immediatamente e si sono mantenuti nel tempo (dieci anni), sotto forma di forte e persistente motivazione di operatori e pazienti.
Sono stati (e sono) tali da indurre molte riflessioni di carattere generale.
Si tratta di un’operatività che coniuga protezione settoriale con presa di contatto con funzioni interne e oggetti esterni reali, frammentati e scissi dal contesto per venire incontro alle particolari modalità percettive dei pazienti, ma ricostruiti nella loro complessità all’interno di una logica controllata e credibile e soprattutto di una relazione in divenire. Protezione e stimolazione si alternano e si susseguono continuamente, esercitando quell’azione di graduale e progressivo potenziamento sulle funzioni superiori della mente, che è le migliore premessa per qualunque incremento dei livelli di adattamento che si vogliano ipotizzare.
Il rinforzo delle singole abilità cognitive non è perseguito in maniera prioritaria e specifica, ma affidato al funzionamento di ogni singola persona, sotto la spinta della motivazione a capire e a ricordare cose divenute (o tornate ad essere, grazie alla situazione protettiva) parte del proprio patrimonio di pensiero personale.
Si tende ad attivare un circolo virtuoso, in cui il paziente si sente più sicuro, più ottimista, più propositivo e più disposto a recepire nuovi stimoli.
Come si dimostrano tali effetti?
Ovviamente nulla, nel nostro campo, è documentabile in maniera indipendente, univoca o obiettiva, con buona pace degli eventuali cultori di una Evidence Based Psychiatry.
Cercare di produrre statistiche sull’adattamento successivo agli interventi cognitivi sembra un’operazione o ingenua o ai limiti della manipolazione, per i motivi a più riprese esposti, non dissimile da quella di voler documentare l’efficacia di un particolare farmaco su pazienti di comunità.
Bisogna inevitabilmente ricorrere a una valutazione soggettiva e fortemente influenzata da elementi intuitivi.
Ciò premesso, possiamo dire che è impressione di tutti (curanti interni, curanti esterni, famigliari, osservatori) che in questi anni la qualità della vita nelle Comunità sia molto migliorata, i sintomi e gli agiti più contenuti, la motivazione a cercare o accettare soluzioni abitative e socio-lavorative meno protette (da parte di operatori e pazienti) maggiore.
Cosa che effettivamente si è verificata e si verifica piuttosto spesso.
BIBLIOGRAFIA
1. AA.VV. – Atti del Convegno “GRANDE O PICCOLA? – La comunità e i suoi spazi”, Monastero Bormida (AT), 7 novembre 1998 (richiedibile a info@ilbuconellarete.it)
2. Giordano, E. – “Fare Arteterapia”, Ed. Cosmopolis, Torino, 1999
3. Montinari, G. – “La ricerca di indicatori di sovra- o sottostimolazione attuale del paziente in comunità”. In: AA.VV. – Atti del Convegno “LA COMUNITA’ E I SUOI TEMPI” – Monastero Bormida (AT), 24 novembre 2001 (richiedibile a info@ilbuconellarete.it)
4. Montinari, G. – ”La ricerca di indicatori di trattabilità in pazienti ospiti di strutture residenziali” su PSYCHOMEDIA, 2003, www.psychomedia.it/pm/thercomm/tcmh/montinari.htm
5. Montinari, G. -“The Research of Indicators of Tractability of Patients Living in Residential Structures”. Relazione al Congresso della World Association for Psychosocial Rehabilitation, New York, agosto 2003.
6. Montinari, G. – “Il buco nella rete“, ed. ECIG, Genova, 1990, sulla teoria e la prassi della terapia comunitaria, in base all’esperienza del Centro di Socioterapia Daily di Genova (1973 – 1981).
7. Montinari, G. – “L’agnello e la scure“, ed. FRANCO ANGELI, Milano, 1998, sullo sfondo antropologico della terapia psichiatrica.
8. Montinari, G. – “La malattia istituzionale dei gruppi di lavoro psichiatrici”, ed. FRANCO ANGELI, Milano, 1999, sulla patologia indotta negli operatori psichiatrici e sugli strumenti per prevenirla e curarla.
9. Montinari, G. – “Luoghi comuni e comunità”, Ed.Cortocircuito, 2011 (richiedibile a info@ilbuconellarete.it)
10. Montinari, G. – “Psicoterapia al limite”, ed. FRANCO ANGELI, Milano 2001, sulla psicoterapia a pazienti disabili gravi istituzionalizzati.
11. Montinari, G. – “Psichiatria ad assetto variabile – Le determinanti strutturali della riabilitazione”, Ed. Franco Angeli, Milano 2005
12. Montinari, G. – “A letto con l’evoluzione” – Le peripezie antropologiche della Sessualità, Ed. Cortocircuito, 2011 (richiedibile a info@ilbuconellarete.it)
13. Racamier, P.C., – “Lo psicanalista senza divano”, Ed. Cortina, Milano, 1982
14. Sivadon, P., Gantheret, F. – “La rééducation corporelle des fonctions mentales ”, ESF, Paris, 1969.
15. Montinari, G. – “Mon expérience du Pack” , su THERAPIE PSYCHOMOTRICE, n. 135, 2003
16. Montinari, G. – “Proteggere e comunicare in Terapia Psichiatrica”, su QUADERNI ITALIANI DI PSICHIATRIA, Vol. XXVI, marzo 2007.
[1] Il malfunzionamento indotto deriva dal fatto che il contatto con la patologia, in maniera subliminale, facilita e rende più frequenti delle forme semplificate di mentalizzazione dei dati, basate su percezioni globali (per lo più su base emotiva) forzatamente imprecise oppure su dettagli decontestualizzati, sconnessi e privi di significato proprio. L’operatore, come qualunque altro interlocutore del paziente, è esposto al rischio di non vedere i fenomeni nella loro complessità e di subire, senza accorgersene e facendole proprio, le modalità strutturali di percezione dei pazienti, cioè una scissione disarticolata dei contenuti, in un contesto altamente emotivo (o abnormemente privo di emozioni). Il ricercatore, poi, dato il suo metodo di approccio basato proprio sulla decontestualizzazione degli elementi che esamina, è ancora più esposto a queste influenze, che possono interferire nel merito della ricerca stessa e indurlo a compiere analisi incomplete o addirittura scorrette. Per esempio può essere indotto a condividere stati d’animo alterati, persino a non percepire la presenza della psicosi, a mettersi sterilmente in simmetria con singoli problemi irrisolvibili, a sopravvalutare strategie settoriali chiaramente irrealistiche, a non cogliere i veri fattori causali dei fenomeni nella loro complessità.
[2] G. Montinari – “Psichiatria ad assetto variabile”, v.
[3] La cattiva comprensione da parte di tutti operatori di quanto i pazienti lavorino poco e male su contenuti ad alto livello simbolico e relazionale e di come invece percepiscano in maniera esasperata le variabili strutturali della convivenza è fonte infinita di errori di conduzione dei casi e di malessere nei gruppi di lavoro psichiatrici (G. Montinari – La malattia istituzionale dei gruppi di lavoro psichiatrico, v.). L’operatore (psichiatra, psicologo, riabilitatore) poco formato non riesce ad attribuire alle cose lo stesso valore che esse hanno per i pazienti e sistematicamente inverte, per così dire, le polarità. Considera significative manifestazioni dei pazienti (per esempio verbali o mimiche, come riso o pianto immotivati), di per sé scisse dal contesto e prive di qualunque altro senso che non sia quello di riaffermare una incapacità o una non volontà di comunicare per quella via; e non percepisce il senso dei comportamenti e degli agìti dei pazienti, finalizzati proprio a saggiare l’attitudine del gruppo curante a muoversi sull’unica lunghezza d’onda per loro comprensibile in quel momento, inerente, per l’appunto, la gestione dei limiti.
[4] AA.VV.: “GRANDE O PICCOLA? – La comunità e i suoi spazi”, v.
[5] Sivadon, P., Gantheret, F: “La rééducation corporelle des fonctions mentales”, v.
[6] Montinari, G. : “Proteggere e comunicare in Terapia Psichiatrica”, v.
[7] Si tratta di menomazioni alquanto gravi, che sul piano cognitivo, per fare un esempio, fanno sì che un gregge di pecore venga visto come una massa bianca dai contorni mal definiti, con tanti zoccoli, percepiti per di più pochi alla volta: per il paziente è problematico tanto definire l’insieme (il gregge) o suddividerlo in sub-unità, quanto collegare l’uno all’altro quattro zoccoli e attribuirli a una singola pecora. Si tratta di operazioni opposte, di disgiunzione e di accorpamento, non coordinate per l’indisponibilità di un pensiero simbolico forte, quello che, se ci fosse, permetterebbe di mentalizzare l’identità della singola pecora e organizzare tutte le pecore in un gregge. Il principale problema dei pazienti, infatti, è riuscire a svolgere le funzioni dell’io (cioè mantenere la propria identità in un ambiente mutevole e sfuggente e rispettivamente controllare l’ambiente in funzione delle proprie diverse necessità interne), pur avendo gravi problemi di gestione della complessità. Il difficile compito di tenere assieme “dentro” e “fuori” è reso molto precario dalla debolezza di un pensiero in difficoltà con i processi di distinzione, simbolizzazione, smaterializzazione e integrazione degli oggetti e dei vissuti, sempre in bilico tra una frammentazione disarticolata e una globalità incapace di limiti e di differenziazioni.
[8] G. Montinari: “Psicoterapia al limite”, v.
[9] A questo riguardo rimando alle mie ricerche tramite il “Metodo Survey”, che misura appunto tale punto di equilibrio. La metodica si basa sulla quantificazione del grado di validità, percepita da ciascun operatore, di numerose e disparate micro-interazioni tra lui e ciascuno dei pazienti. Dalla media di tutti i punteggi (migliaia per ogni rilevazione, sommando i protocolli di tutti gli operatori), adeguatamente trattati dal punto di vista statistico, deriva al singolo paziente un punteggio unico (teoricamente da 1.0 a 5.0, in pratica compreso tra 2.0 a 4.0), che, sulla base di migliaia di casi studiati trasversalmente e centinaia seguiti longitudinalmente per anni si è rivelato molto indicativo del grado di sovra- o sotto-stimolazione del paziente stesso in un determinato momento e contesto. Nella pratica comunitaria, in base al punteggio del “Survey” (rinnovato ogni sei mesi), viene decisa ogni strategia riabilitativa, facendo prevalere la protezione o la stimolazione del singolo paziente, la sua maggiore o minore esposizione all’esterno, la conformazione stessa del progetto terapeutico, le modalità di interazione e le forme di applicazione delle varie tecniche terapeutiche. Per maggiori dettagli: G. Montinari – “La ricerca di indicatori di trattabilità in pazienti ospiti di strutture residenziali”, PSICHOMEDIA 2003, v.
[10] G. Montinari: “Il buco nella rete”, v.
[11] Giordano, G.: “Fare Arteterapia”, v.
[12] Montinari, G.: “Mon expérience du Pack”, v.