Il limite in terapia psichiatrica: quali limiti?

di Giandomenico Montinari

La gestione dei limiti è il secondo grande tema su cui ben pochi di noi riescono ad essere coerenti nella loro pratica clinica.

La capacità di gestire i propri limiti sembra essere l’attitudine più carente nella vita del paziente psicotico. La parola “limite” propriamente comprende molte cose: limiti tra sé e “il mondo” anzitutto. Poi limiti tra emozione e azione, tra pensiero e emozione, tra pensiero e azione, limiti tra ciò che è proprio e ciò che è altrui, tra ciò che si può fare e ciò che non si può fare.

E ancora: limiti tra fare e non fare, tra giusto e sbagliato, tra reale e irreale. Si potrebbe andare avanti molto a lungo.

Il paziente psicotico sembra non potere (o non volere, o non potere abbastanza, chissà…) capire dove sono i suoi limiti, dove finisce il suo ambito esistenziale e dove comincia quello degli altri; altri che – detto tra parentesi – di solito vengono percepiti come poco più che dei soprammobili o delle figure disegnate sulla parete. Così, almeno, stando a quello che sembra.

Ciò di cui il paziente ha più bisogno, dunque, prima e al di là di qualunque altra cosa, è essere aiutato a capire e a gestire i suoi limiti. Non si può, non dico curare, ma neanche instaurare un iniziale rapporto di fiducia con un paziente, se non si riesce a interrompere l’esperienza psicotica.

Interrompere vuol dire reintrodurre (o imporre…) nel mondo del paziente l’esistenza della realtà esterna: qualcosa che non è deformabile a piacimento, che ha una sua esistenza a prescindere dal fatto che lui la voglia o non la voglia, la capisca o non la capisca.

Una esistenza fisica, corporea, incomprimibile, indiscutibile, cogente. Può essere una regola, una porta chiusa, un rifiuto, un’imposizione sgradita (come fare la doccia che non fa da un mese!), una privazione. In una parola, un NO.

Oppure un SI.

Solo confrontandosi con questo limite, essendo cioè costretto a “tenere assieme”, distinti ma uniti nello stesso orizzonte percettivo, se stesso e quello che lo circonda, il paziente può tentare di recuperare la sua identità, le capacità simboliche e riflessive e tutto quello che forma le funzioni superiori dell’Io, a partire dal recupero delle coordinate spaziali e temporali, da una ritrovata linea di demarcazione tra un qua e un là, un prima e un dopo, un alto e un basso, un dentro e un fuori.

Non è il (precario) coinvolgimento in una forte relazione (all’inizio quasi impossibile, anzi tossica) che crea il limite, ma l’esatto contrario: è il limite che stimola, consente, fa crescere la relazione, punto d’arrivo finale del nostro lavoro.

Mi rendo conto che non tutti hanno questa capacità e che questo modo di procedere, peraltro non sempre possibile, comporta grosse responsabilità, grande energia e talvolta coraggio, anche fisico. Ma è l’unica cosa che viene chiesta a noi addetti ai lavori! Tutto il resto può farlo chiunque altro!

 

Naturalmente il paziente, con lo stile che gli è proprio, tutto questo non lo dice. Non lo dice perché non può dirlo, perché se riuscisse a dirlo, significherebbe che non è questo il suo problema principale e che quindi non avrebbe bisogno di esperti specialisti (cioè noi) per affrontarlo. In sostanza se fosse una persona capace di gestire i propri limiti non sarebbe lì davanti a noi e sarebbe da un’altra parte.

L’unica segnalazione di bisogno (che è anche, se vogliamo, l’unico “aiuto” che riceviamo da lui) è il suo esasperare i problemi, per costringerci a prenderne atto: trasgredire alle regole, divagare su temi particolarmente fantasiosi e assurdi, pretendere cose chiaramente impossibili, “dimenticare” compiti e mansioni, “omettere” informazioni importanti, “fingere” di non sapere e non capire, ecc. ecc.. Tutti comportamenti che, intanto, svolgono anche la (legittima) funzione di prenderci le misure, testare con molta professionalità la nostra tenuta e saggiare i nostri limiti.

Teniamo presente che tali richieste di aiuto sono indiscutibilmente mal formulate, ma non sono rivolte a chicchessia, bensì a specialisti della comunicazione paradossale, cioè a noi, che siamo tenuti per ruolo e per contratto a saperle decifrare, prima ancora che a soddisfarle o a frustrarle. Essendo, sia noi sia il paziente, nel pieno esercizio delle nostre rispettive funzioni, se alla fine il contatto non avviene, la parte inottemperante siamo noi, non lui.

 

Ebbene, qual è la risposta più frequente a questi evidenti e disperati cry for help, a questo bisogno che qualcuno o qualcosa si assuma finalmente la responsabilità e il ruolo di mettere ordine nella sua testa, a partire dagli aspetti più elementari?

La risposta è, quasi sempre, quella esattamente opposta.

Un atteggiamento volto a minimizzare i problemi, a concedere qualunque cosa, a non richiedere nulla che possa lontanamente far sospettare al paziente (che la nega o finge di negarla) l’esistenza di una obiettività, di istanze esterne, reali, non manipolabili. Libertà assoluta, di pensare e dire qualunque cosa (anche di grossolanamente delirante), di fare o non fare, di uscire o non uscire senza alcun motivo, di perseguire idee e compiti cervellotici, di disinteressarsi di tutto, di non avere stimoli, compiti, programmi. Sospensione o abolizione di qualunque cosa si configuri come una distinzione di ambiti, una differenziazione di significati, una distanza.

Niente di tutto questo.

“Il paziente è qui per curarsi – si pensa e si dice -: deve essere libero di esprimersi come vuole, non deve essere disturbato con continui richiami a una realtà che non sa gestire e che lo fa sta male. Se anche pensa che i Marziani o la CIA gli mettano le microspie nell’armadio, cosa importa? Si riempie la vita con queste cose e non fa male a nessuno”. (Il che qualche volta è anche vero o almeno inevitabile, intendiamoci bene!).

Il nostro compito – si ritiene – è anzitutto quello di rispettare le sue scelte di vita, poi quello di farlo vivere in un’atmosfera di benevola tolleranza, osservarlo, cercare di capire i suoi problemi inespressi, anche a rischio di sembrare, addirittura a lui stesso, collusivi, anzi complici.

Qualche volta, forse, tutto ciò è inevitabile, lo capisco. A chi di noi non è successo? Ma proporlo come programma terapeutico…

Cura? Cambia la realtà del paziente? Giustifica l’onorario o lo stipendio (lauto o meno lauto, non è questa le sede per parlarne!) di un operatore specializzato in tali problematiche, di un terapeuta – riabilitatore per pazienti gravi?

 

Io credo di no.

 

L’idea che il paziente si fa di noi è che anche noi (come quelli che ci hanno preceduto) non stiamo capendo niente di lui e/o che non abbiamo gli strumenti per aiutarlo. Sapendo di essere (ed essendo) un “sacco vuoto” (vuoto di strumenti di comprensione validi, di contenuti reali, di chiarezza mentale), constata che noi lo lasciamo nella sua disperante beanza, più vuoto e confuso di quanto sarebbe da solo, con la sola preoccupazione di rispettarlo, di dargli da mangiare e di osservarlo benevolmente!

Dato il suo modo concreto di pensare, il fatto di non vietargli niente e di non chiedergli niente gli fa ritenere che non lo giudichiamo capace di operare su di sé il minimo cambiamento positivo. Cosa che peraltro pensa o magari auspica anche lui!

E si comporta di conseguenza: non solo non richiede, ma non facilita neanche (per così dire) la cosa di cui ha più bisogno e che più gli sarebbe utile…

Anzi, diciamola tutta, fa qualunque cosa per renderla difficile. Perché vuole essere sicuro – a ragione – che noi siamo ben convinti e consapevoli di quello che gli facciamo.

Se la nostra filosofia operativa, tollerante e rispettosa, non può prescindere dal consenso (v. punto precedente) e dalla collaborazione, espliciti e preventivi, e non contempla che vengano messi dei limiti, beh, il rapporto con questi pazienti rischia di diventare la nostra Waterloo professionale… e un ennesimo fattore di cronicizzazione per i nostri interlocutori.

 

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