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Egregio dott. Montinari,
sto aspettando con trepidazione la prossima puntata del suo pensiero sulla protezione del paziente psichiatrico.
Troppo spesso anche i nuovi operatori assunti nelle strutture, giovani pieni di entusiasmo (come se fosse l’unico vero importante criterio per scegliere gli operatori psichiatrici) non vengono messi in buone mani.
E fanno quello che gli viene spontaneo: infantilizzare il paziente. Questi nuovi operatori, pieni di entusiasmo, fanno un sacco di cose belle, ma poi magari sbagliano nell’essenziale.
Come mai non riusciamo a identificare il nucleo importante di competenze dell’operatore psichiatrico? Se dovessimo dare una patente di operatore psichiatrico, quali competenze dovrebbe riuscire a dimostrare di avere o dovrebbe essere disposto ad apprendere???
A. S. (lettera firmata)
Caro Collega, mi sembra che il suo intervento metta impietosamente a fuoco la disperante carenza di know how che pervade il nostro mondo della terapia – riabilitazione psichiatrica.
Come ho detto all’inizio delle mie chiacchierate in questo sito, quello che si fa quotidianamente è proprio, per citare il vecchio Gino Bartali, “tutto sbagliato, tutto da rifare…”.
Perché?
Le confido che da quarant’anni, cioè da quando ho cominciato a fare comunità a Genova, albergo un dubbio dentro di me, che è sempre lo stesso e sempre senza risposta. Delle due una:
– i miei colleghi (operatori anziani, ricercatori, responsabili, formatori) in primis e poi tutti gli altri, fino al più giovane operatore e poi agli amministratori e ai politici, non si rendono conto della complessità del lavoro che fanno.
– se ne rendono conto, ma preferiscono occultare le difficoltà per non suscitare vespai di ardua soluzione, che sarebbero forieri di una confusione ancora maggiore.
Sono più che disposto a capire e anche, con riluttanza, ad abbracciare questa seconda possibilità, come i sudditi della favola che fingono di non vedere che il re è nudo. Per il bene dello “Stato” si può fare questo e altro e io stesso ho cercato di farlo per decenni.
Tuttavia, devo constatare che il “compromesso” oggi in essere (tra quello che viene fatto e quello che andrebbe fatto), ammesso che sia davvero tale, ha dei costi umani giganteschi e sproporzionati. E non parlo dei pazienti, ben più forti e più attrezzati dei curanti a sopravvivere in contesti gravemente deteriorati.
Parlo degli operatori.
Decine (anzi, forse, centinaia) di migliaia di persone frustrate, senza speranza, che si auto – costringono per ragioni soprattutto ideali e affettive (il problema della pagnotta è importante per tutti, ma potrebbe essere risolto ben più facilmente lavorando in altri campi) a confrontarsi senza strumenti con situazioni impossibili e portate all’esasperazione dal trionfo incontrastato di luoghi comuni e princìpi pseudo – tecnici e pseudo – teorici.
Vedendo lo stato in cui versano le comunità, i servizi e di tutta l’Assistenza Psichiatrica, sempre più spesso mi viene il dubbio che forse, veramente, le persone, a tutti i livelli, non sappiano le cose …
E non stento a crederlo, sapendo quanto il lavoro sia difficile, tanto concettualmente, quanto in fase esecutiva. Io ho impiegato anni e anni di intensa riflessione e di faticosissima sperimentazione sul campo, per capire molte cose che adesso mi sembrano ovvie.
Il guaio è che si tratta di un lavoro che non si può fare a metà, senza capire quello che succede, perché tutti ben sappiamo quanto il lavoro stesso rischi in questo modo di diventare pericolosissimo!
Allora, se è così, se davvero si tratta di disinformazione e di inesperienza, parliamone! Questo blog è basato su questa, che considero pur sempre un’ipotesi. Un’ipotesi che mi espone al rischio che qualcuno mi dica che ho scoperto l’acqua calda!
Ma affronto il rischio.
Giandomenenico Montinari
Egregio dott. Montinari,
ho letto l’ultimo aggiornamento e vorrei chiederle un chiarimento. Lei, ad un certo punto, scrive: “Ma si possono esplorare altre possibilità, basate su un “inganno”, molto simile a quello del cavallo di Troia.”
Non mi è chiaro questo passaggio: altre possibilità rispetto a cosa?
In un altro passaggio, poco prima di quello citato sopra, scrive che “non è possibile farne a meno”: intende dire che non si può fare a meno delle funzioni superiori dell’io per affrontare adeguatamente un mondo complesso?
Lo psicotico, invece, dato che sospende queste funzioni, deve per forza tagliare fuori parti molto consistenti di ciò che dovrebbe essere elaborato; deve tenere “fuori dalle mura” tutto ciò che supera una certa complessità. Ed è, immagino, proprio questo che lo rende un “disabile”.
Ma poi lei continua dicendo che si possono esplorare altre possibilità, basate su un “inganno” come il cavallo di Troia. Questo punto dell’argomentazione non mi è chiaro: sta dicendo che forse lo psicotico non tanto sospende le funzioni dell’io, ma attua una sorta di inganno, bugia. Può spiegare meglio?
Il dilemma teorico, che ha anche implicazioni terapeutiche, sarebbe: perché lo psicotico non tiene conto, non elabora, tiene fuori dalle mura, tutto ciò che supera una certa complessità? Perché non ne è capace, intendendo che ha perso questa capacità in modo irreversibile, non più recuperabile, oppure perché non vuole farlo?
Lei propende di più per il fatto che “non vuole” perché da ciò consegue che si possa veramente realizzare una terapia riabilitativa. E che gli accorgimenti per superare quel “non vuole” sono fattibili.
Vorrei inoltre dire, oltre questa richiesta di chiarimento, se sia fattibile un modo di lavorare che non dico che ci tolga dall’impiccio del coinvolgimento personale e di un po’ di fatica emotiva, ma se sia possibile introdurre nel nostro lavoro una positività nonostante quella che sento essere una costante sensazione, e cioè che la cura dello psicotico sia sempre al di sopra delle nostre possibilità di comprensione. dovrebbe essere disposto ad apprendere???
A.S. (lettera firmata)
Caro Collega, divido il suo intervento in tre parti.
1) Le “altre possibilità”, di cui parlo, che il riabilitatore deve seguire sono le vie alternative a quello che fa il paziente: tagliare abilità e strumenti di comprensione e di contatto, per chiudersi sempre di più in un mondo privato. Detto per inciso, questo è anche quello che purtroppo, per contagio e imitazione, fanno molti gruppi di lavoro psichiatrici!
Per realizzare l’alternativa ci sono molti espedienti, che possiamo adottare (in parte manipolativi, talvolta “maliziosi”, magari anche un po’ intrusivi e poco politically correct) e che cerco di accennare in queste pagine.
2) Per quanto riguarda il volere o meno del paziente, io, pur non potendo (come chiunque altro) esserne sicuro al cento per cento, propendo per la tesi della “non-volontà”.
Tutti, credo, abbiamo assistito a situazioni di vita eccezionali di alcuni pazienti, a momenti particolari, magari drammatici (come proprie malattie organiche gravi, lutti famigliari, incidenti o altri eventi “catastrofici”, come l’allagamento della comunità), in cui un paziente, ritenuto gravissimo e magari incomunicabile, recupera istantaneamente e integralmente la propria lucidità e… ci fa capire molte cose…
Data l’infinita complessità di funzionamento mentale che ciò presuppone, non può trattarsi di una capacità “improvvisata” o “inventata”. Semplicemente è una cosa che c’è sempre stata, ma è stata tenuta allo stato latente, congelata in una sorta di particolare stand by.
Anche i miglioramenti vistosi che si ottengono, quando si riesce, in molti casi con diagnosi “proibitive”, non possono essere solo un portato della terapia farmacologica o della psicoterapia o frutto di apprendimento. Sono dovute al fatto che il paziente avverte nel suo ambiente la presenza di condizioni ambientali tali da potersi permettere (senza dolore) un funzionamento mentale più elevato.
La regolazione che sta dietro questo fenomeni è troppo sottile e troppo efficiente, per pensare a individui sprovveduti e veramente “disabili”.
Malati sì, ma in un senso diverso, più ampio, più indiretto.
3) Il “sentimento di positività” di cui lei parla deve essere sempre attivamente e fortemente perseguito. Con i pazienti bisogna sempre (o quasi) cercare di arrivare al punto di divertirsi. Lo dico realmente e in senso stretto. Stare con i pazienti deve accompagnarsi a un sentimento di piacevolezza e di soddisfazione, non solo e non tanto per il fatto di vedere come siamo riusciti a farli stare meglio fisicamente, quanto per il fatto di averli strappati al loro mondo virtuale e riportati all’interno dell’umana convivenza.
Vedere un individuo confuso, oppositivo, incontattabile, totalmente immerso nei suoi deliri, che un bel giorno esce dalle nebbie in cui staziona normalmente e, per la prima volta, mi saluta di sua iniziativa, mi sorride e mi fa capire (almeno per un attimo) che ha capito che io ho capito…
Be’, io considero questo il momento più bello e, per quanto mi riguarda, faccio di tutto perché si verifichi il più spesso possibile, se non proprio sempre.
Se tutto ciò non succede dopo un ragionevole lasso di tempo, significa o che abbiamo sbagliato qualcosa o che non siamo, in quel caso specifico, all’altezza del compito: come si suol dire, “non esistono mogli frigide, ma mariti incapaci!…”.
Però tutti abbiamo (e abbiamo diritto di tenerci stretti) i nostri limiti.
Giandomenico Montinari