di Giandomenico Montinari
Non c’è rapporto terapeutico, programma, approccio, metodica terapeutica che non dichiari di basarsi sul consenso del paziente, che non parta, cioè, dal fatto che egli capisca quello che si vuol fare per lui, ne condivida le finalità, offra la sua collaborazione. Se il consenso non è proprio immediato, si suggeriscono delle tecniche per conseguirlo in tempi brevi.
Questo è giusto, bello, politically correct, tale da facilitare il lavoro e, quando c’è, è un elemento prognosticamente favorevole.
Peccato però che il consenso sia, il più delle volte, semplicemente illusorio: il paziente vero, quello di una certa gravità, per il quale devono entrare in campo gli specialisti, di solito (“per definizione”, si potrebbe dire) non capisce e non condivide affatto quello che ci si accinge a fare con lui, sia esso un ricovero, un inserimento in comunità e in centro diurno, l’avvio di un programma terapeutico-riabilitativo o di una psicoterapia.
Se sembra che lo faccia, è, diciamo così, per cortesia, o per compiacenza passiva o per costrizione o per opportunismo o per altre ragioni, oscure o inconfessabili.
Se capisse e condividesse il nostro progetto, ciò starebbe a significare che non soffre dei problemi che lo hanno portato a noi; che non avrebbe bisogno del nostro intervento specialistico e potrebbe rivolgersi per aiuto a qualunque altro tecnico. Il motivo per cui viene (o, meglio, viene condotto) da noi è proprio la sua difficoltà di presa di coscienza complessiva del suo stato e la difficoltà di integrazione interna dei suoi vissuti, che sono notoriamente tra le funzioni più colpite dalla malattia da cui è affetto.
Il consenso (di cui fa parte la c.d. “compliance”) è il risultato (non prevedibile nei tempi e nei modi) di un lavoro lungo, complesso, faticoso e… fortunato! Un risultato che, quando e se si verifica, prelude alla dimissione, almeno per quanto riguarda noi.
Il fatto, invece, che il consenso venga cercato in tempi brevi, che sia considerato addirittura una premessa del lavoro, o, peggio, che venga semplicemente presunto, come può essere definito?
Un’ingenuità colpevole o, tout court, un errore metodologico?
Ebbene, su tale errore, cioè sulla presunzione di un illusorio consenso, si basa tutto (ma proprio tutto) il programma che verrà attuato in seguito, le metodiche, per un verso, ma anche gli atteggiamenti dei curanti, per l’altro verso. E’ facile infatti che, al primo, più che prevedibile, intoppo, questi ultimi considerino il paziente scarsamente collaborativo, se non addirittura “cattivo”. Senza rendersene conto, cioè, gli attribuiscono la colpa di non sapere/potere/volere compiere prima del tempo le operazioni mentali che sono l’obiettivo finale del loro intervento!
A questo punto il paziente viene o abbandonato di fatto al suo destino, perché “inguaribile”, oppure redarguito o sottoposto a moral suasion, o nuovamente istruito sulle finalità e gli strumenti del lavoro.
Il che equivale esattamente a fare una dimostrazione grafico-visiva a una platea di ciechi o a tenere una conferenza a dei sordi (non protesizzati).
Che opinione pensate che il paziente si faccia dei suoi curanti? Pensate che abbia gli elementi per apprezzarli come tecnicamente competenti e in grado di cambiare il corso della sua malattia?
O non si convince, piuttosto, di essere di fronte, una volta di più, a persone che non capiscono proprio niente di lui e che non hanno gli strumenti per aiutarlo?
E dovrebbe, secondo voi, affidarsi a loro terapeuticamente?
Il guaio è che, sempre per gli stessi motivi suddetti (collegati alla sua malattia), il paziente non è in grado (o forse non vuole? chissà!?) spiegare tutto ciò ai suoi curanti. Pretende che lo capiscano da soli, aiutati soltanto dal persistere dei suoi agìti, dalla sua bizzarria, dalla sua paradossalità, dalla distanza che mette nei rapporti con loro.
E aspetta… mesi… anni…, come se rispettasse la loro “scelta” di non capire.
Il fatto è che, dato il grandissimo bisogno che ha di essere aiutato, vuole essere sicuro che i curanti siano all’altezza del difficile compito di fargli da “io ausiliario” (come si suol dire). E vuole che lo dimostrino col non avere bisogno delle sue spiegazioni.
Ma se invece (come è evidente) hanno bisogno delle sue spiegazioni… sono all’altezza?!
Ovviamente no. Come dargli torto?
E così si va avanti per anni e anni, dando vita a un inesauribile braccio di ferro, destinato di solito a perdurare tutta la vita del paziente.
A meno che, un bel giorno, qualcuno non capisca il gioco e gli faccia capire che ha capito.
Anche lui senza dirglielo, per una legge di doverosa simmetria! O, meglio, senza fare appello ad alcuna forma di complicità, di identificazione reciproca, di condivisione. Se glielo dicesse non sarebbe preso in considerazione e ancor meno creduto…
Bisogna capire senza spiegazioni e far capire che si è capito, ma sempre senza spiegazioni!
E’ impossibile?
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