La psicosi occulta nella disabilità intellettiva
Giandomenico Montinari
Convegno di “SINERGIE” – Novi Ligure, 8 giugno 2007
Oggetto di questo Convegno è una forma patologica che vogliamo chiamare “psicosi occulta”. Termine enigmatico e vagamente inquietante.
Di cosa si tratta?
Non è facile definirla e descriverla, perché per farlo bisogna addentrarsi nella zona d’ombra del nostro fare psichiatria.
Anzitutto in sede diagnostica, dato che viene consapevolmente negato con l’apparente consenso di tutti:
● degli amministratori pubblici per pagare rette non psichiatriche, ovviamente meno gravose,
● dei famigliari dei pazienti, per, diciamo così, pietà parentale,
● degli operatori sociali, per non stigmatizzare precocemente i pazienti, soprattutto se minori.
● dei neuropsichiatri, per gli stessi motivi, ma anche per non allontanarsi troppo da una rassicurante visione biologica e medica o, come si suol dire, evidence based, della psichiatria.
● delle onnipotenti case farmaceutiche, che non gradiscono una diagnostica troppo complessa che rischi di ridimensionare o relativizzare gli interventi farmacologici. (Qui possiamo dirlo perché non siamo sponsorizzati). Anche se la prospettiva di neurolettizzare preventivamente tutti non dispiacerebbe!
● delle agenzie di ricerca e formazione (università, scuole di specializzazione, gestori del DSM IV, ecc.) che non vogliono o non possono elaborare strumenti di definizione tecnicamente e ideologicamente più impegnativi o semplicemente diversi, che possano mettere in discussione certi capisaldi…
Sono tutti motivi comprensibili, talvolta nobili, talvolta meno, intrisi di sentimenti di vario tipo, convinzioni, interessi economici, abitudini non modificabili in tempi brevi, e addirittura problematiche molto, forse troppo personali: tutti confluiscono comunque in un unico processo di negazione collettiva, per cui, in molti casi (minori, disabili di tutti i tipi, tossicodipendenti, sociopatici, pazienti psicosomatici, ecc.), non essendovi segni conclamati di schizofrenia (deliri, allucinazioni, ecc.), la psicosi non esiste.
Negazione collettiva molto simile a quella della favola del re nudo, in cui tutti fingono di non vedere che i vestiti del re in realtà non ci sono. Dato però che è sempre in vigore la massima greca per cui “gli dei accecano chi non vuol vedere”, una cecità simulata finisce per diventare vera e per incidere pesantemente sulla qualità della vita di moltissime persone.
Allora, come nella favola, c’è bisogno di un bambino che, solo contro l’omertà di tutti, osi dire, appunto, che il re è nudo. Così provo lo stesso a parlarne, traendo la mia determinazione a farlo dal constatare quotidianamente come moltissimi pazienti non vengano riconosciuti e quindi adeguatamente curati, con costi umani (esaurimento degli operatori) ed anche economici immensamente superiori all’eventuale aumento di alcune rette o del numero di prese in carico psichiatriche da parte dei servizi.
Perché è anche e proprio in termini economici che il costo del mancato riconoscimento della psicosi occulta finisce per essere altissimo per servizi e gestori, pubblici e privati, dato che non capire la problematica di una persona significa avere interi ambulatori o strutture o reparti paralizzati per mesi da parte di un solo paziente “terribile” (di solito a turno o a rotazione), assumersi oneri impropri (come un operatore o uno psicoterapeuta personale al servizio di un singolo, ecc.), subire un logorio assolutamente sproporzionato ed evitabilissimo del personale, assistere a un aumento di assenteismo, morbilità e sinistrosità (parlo di quelle reali e non di quelle simulate, che in quest’ottica sono altrettanto preoccupanti), demotivazione, oppure maggiore rivendicatività dei dipendenti, clima di lavoro degradato, ecc..
Cos’è allora la “psicosi occulta”?
Per tentare di darne una descrizione, è necessario partire da lontano.
La nostra nosologia e il nostro modo di far diagnosi, a dispetto dell’apparente complessità terminologica, sono o rudimentali o ingenui, perché sono “monodimensionali” e programmaticamente non in grado di integrare variabili fondamentali e quindi di gestire la complessità delle situazioni reali.
Esse si rivelano incapaci di confrontarsi adeguatamente con la patologia psichica, avversario infinitamente più subdolo e scaltro di quanto comunemente non si mostri (nei fatti) di ritenere, attrezzato a infiltrarsi nelle fessure dei nostri sistemi di pensiero e di utilizzare a suo vantaggio le nostre stesse energie.
E’, a ben vedere, uno scenario da film di fantascienza o più realisticamente, una situazione analoga a quella dei virus, biologici o informatici che siano.
Allora, tanto per cominciare, la patologia occulta è quella che noi non vediamo a causa delle zone d’ombra nel nostro modo di pensare la malattia mentale.
Per compendiare tutto in una battuta si potrebbe dire che il nostro pensiero diagnostico, almeno nei casi più impegnativi, è quasi sempre “sintetico” dove dovrebbe essere “analitico” e “analitico” dove dovrebbe essere “sintetico”.
A. Dove si richiederebbe una valutazione complessiva del potenziale riabilitativo e, contestualmente, del reale bisogno di protezione, di un paziente, facciamo complicate disquisizioni nosologiche (sul tipo di discontrollo degli impulsi o il grado di bipolarità o la tipologia dell’ansia e simili). C’è invero il concetto di “doppia diagnosi”, che io non uso volentieri perché rimanda e implica l’esistenza di una “singola diagnosi” che, in Psichiatria, laddove esistesse, sarebbe una condizione anomala e comunque tutta da dimostrare.
B. Dove si richiederebbe effettivamente una valutazione settoriale, cioè una mappatura delle effettive abilità residue del paziente o delle sue potenzialità settoriali, utile per tentare una riabilitazione differenziata, si fa un discorso di generica disabilità, cui corrisponde un percorso terapeutico – riabilitativo altrettanto indifferenziato.
Mi spiego meglio
A.
LA DIAGNOSTICA
Le considerazioni nosologiche, pur utili e necessarie come elementi predittivi e come indicatori sul piano clinico e farmacologico, non colgono, così come sono, la realtà dei pazienti e non danno sufficienti indicazioni a chi è intenzionato a tentare una riabilitazione complessa e incisiva.
Sappiamo benissimo che non c’è corrispondenza tra diagnosi clinica e livello di autonomia complessiva e di abilità sociale dei pazienti: conosciamo tutti schizofrenici patenti e conclamati che, ben curati e assistiti, lavorano e svolgono una vita quasi normale e persone prive di qualsiasi sintomo, anche “negativo”, che non riescono a uscire da una comunità.
Senza contare che, anche all’interno della diagnostica stessa ci sono molti aspetti di ingenuità o di vera e propria inadeguatezza riferibili, in fin dei conti, all’incapacità di cogliere e incorporare nella diagnosi gli aspetti soggettivo – contestuali dell’osservazione, cioè agli aspetti che stanno attorno al singolo sintomo o al singolo comportamento sintomatico osservato.
– Per esempio la semplice rilevazione dei dati clinici di base è molto opinabile e varia moltissimo da un operatore all’altro. Cioè è influenzata dal paziente: e questo è dimostrato sperimentalmente (v. tabella di seguito).
– Raramente ci poniamo il problema di quanto gli aspetti fenomenici della patologia siano indotti da comportamenti, rispettivamente, nostri o dei famigliari dei pazienti.
– E mai, soprattutto, di quanto i nostri strumenti di comprensione siano influenzati o proprio manipolati dalla patologia che curiamo.
– Così non ci preoccupiamo quasi mai di evidenziare il peso del fattore protezione (in positivo o in negativo) del contesto in cui la valutazione avviene.
Tutto questo è dimostrabile sperimentalmente.
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E’ una ricerca che facciamo da alcuni anni e che è tuttora in corso (pubblicata in varie circostanze): ha abbandonato fin dall’inizio l’idea dell’oggettività della valutazione e soprattutto della valutazione singola. Si rivolge direttamente al gruppo degli operatori indagando su micro-relazioni o frammenti di relazione in situazioni molto disparate, quantificando il grado di relazionalità, di compliance, di identificazione reciproca. Ogni operatore dà circa 600 punteggi da 1 a 5 a tutti i pazienti e ogni paziente ne riceve altrettanti dal gruppo di operatori, il che vuol dire 10.000 – 15.000 valutazioni numeriche per gruppo di lavoro, che poi vengono elaborate in base a un programma appositamente studiato.
I risultati sono estremamente interessanti perché individuano con molta precisione i pazienti sovrastimolati da quelli sottostimolati: l’autonomia potenziale inespressa o al contrario, il bisogno di maggiore protezione, anch’esso impropriamente espresso. Sono correlati, anzitutto con la qualità dell’interazione che egli è in grado di instaurare con tutto il gruppo (il rapporto simbiotico con uno solo abbassa il punteggio) e poi col grado di concordanza nelle valutazioni degli operatori: molta concordanza uguale molta autonomia potenziale e viceversa o, se vogliamo, più il paziente è potenzialmente disabile socialmente, più è alta la dispersione dei punteggi.
Tra le osservazioni secondarie (fall out) da questa ricerca, risulta che il riscontro del singolo sintomo o anche di un intero quadro schizofrenico è molto poco rilevante ai fini della determinazione del grado di autonomia potenziale del paziente, cioè della sua possibilità di fare a meno di istituzioni terapeutico – assistenziali, e ai fini di una riabilitazione.
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Non è di questo che voglio parlare in questa sede.
Voglio solo ribadire che in base a questa ricerca, più le valutazioni sono disgiunte, tanto maggiore è la probabilità di acting gravi e più problematica l’autonomia esterna del paziente. E, come corollario, quanto più la patologia è grave, tanto meno può essere capita da uno solo, se non unilateralmente e con pericolo.
B.
L’OSSERVAZIONE DIFFERENZIATA
Ma c’è un altro fattore importante: la nostra incapacità o scarsa motivazione a compiere osservazioni differenziate per ambiti diversi della vita e della personalità del paziente, onde operare una mappatura delle sue abilità residue e delle sue potenzialità.
E, parallelamente, a scollare “chirurgicamente”, cioè riscontrare separatamente, gli aspetti alti da quelli bassi.
In queste situazioni operiamo invece in maniera globale o la scissione è fatta con modalità irrazionali, che escludono cose importanti.
1. Già in situazioni normali, applichiamo alla psicosi gli stessi criteri percettivi che applichiamo al resto.
Come nella visione noi abbiamo l’illusione di vedere tutto nitidamente, mentre non è vero: vediamo solo 4 o 5 gradi, il resto è sfuocato, ma viene integrato dal cervello; così facciamo normalmente nel valutare cose e persone: non osserviamo tutto, ma mettiamo a fuoco solo pochi aspetti e poi integriamo. Ci sono ricerche sperimentali citate da Ruggero Pierantoni “Forma fluens” e “L’occhio e l’idea” e da Rudolf Arnheim “Arti e percezione visiva”, su questo, che qui trascuriamo per quanto interessante: non il contorno ma certe configurazioni o, meglio, certi rapporti reciproci tra punti salienti definiscono le percezioni. Questo è un sistema seguito dalla mente per velocizzare i processi e per risparmiare energie, dato che non sarebbe né possibile né funzionale mentalizzare tutti i dettagli del mondo che ci circonda. Noi siamo abituati a cogliere alcuni particolari di natura figurativa e da lì globalizziamo. Nelle situazioni, diciamo così, normali funziona. Tutti siamo più o meno bravi a inferire da piccole osservazioni grandi realtà relative a ciò che ci circonda: per esempio, da come una persona ci dà la mano possiamo capire chi è, cosa pensa, se ci possiamo fidare, ecc.
Lo stesso facciamo col paziente psicotico: cogliamo due o tre aspetti, di solito di natura esteriore o emotiva e globalizziamo, omologando a tali aspetti tutto il resto.
2. In situazioni precarie, cioè quando la psicosi è più grave o ci sentiamo più minacciati, oppure per qualunque motivo mettiamo in funzione un campo di pensiero regressivo, attiviamo delle modalità percettive di tipo primitivo (gli “assunti di base” di Bion): inclusione assimilativa e/o esclusione.
Come i pettirossi, che reagiscono a qualunque oggetto rosso entri nel loro territorio. Citare Giorgio Celli, l’etologo: assimilazione del territorio + metonimia e attacco.
Orbene, queste strategie percettive con i pazienti psicotici sono decisamente suicide, perché è tipico della psicosi non solo, come già detto, presentare aspetti diversi da un momento all’altro e da una persona all’altra, ma occultare le cose più importanti. E soprattutto è tipico della psicosi l’aver perso quella coerenza interna, quella gerarchia tra le parti della personalità, che, quando c’è, cioè in situazioni meno patologiche, ci permette di ricostruire parti non visibili dalle poche evidenze disponibili.
Nella psicosi la punta dell’iceberg non indica la presenza sommersa del resto dell’iceberg, ma indica solo se stessa e, al massimo, fa pensare che, forse, da qualche parte c’è o c’è stato un iceberg.
Considerazioni su pazienti psicotici fatte da un solo punto di vista o da una persona sola sono sempre sbagliate, per definizione, perché è tipico della psicosi presentare aspetti diversi in momenti diversi e in situazioni diverse, in un contesto di scollamento spazio – temporale e logico, in cui è semplicemente impossibile trovare gli strumenti per operare l’assemblaggio delle – già di per sé discutibili – informazioni.
Io ho come metodo, quando si tratta di diagnosticare e valutare un paziente psicotico, di non considerare valida una osservazione se non suffragata dal parere di almeno tre o quattro persone, appartenenti a gruppi diversi e/o che adottano approcci diversi (per esempio educatori e psicologi o psicologi e psichiatri, ecc.), e dopo un lungo confronto reciproco.
In situazioni di precarietà invece siamo noi stessi a funzionare in senso psicotico, nel senso che attiviamo modalità percettive simili a quelle dei pettirossi: attacco e fuga + assimilazione.
In conclusione, i limiti dei nostri strumenti di valutazione consistono appunto in una mancanza di incisività critica dove più sarebbe necessaria, una omologazione di situazioni differenti, in un contesto di perdita di complessità e di tridimensionalità.
Si tratta quindi, in definitiva, di una diagnostica malata, che non è proprio, come qualcuno ha detto della Psicoanalisi, “la malattia di cui pensa di essere la cura”, ma qualcosa comunque che partecipa delle caratteristiche patologiche di ciò che deve diagnosticare.
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E’ chiaro che l’io psicotico percepisce immediatamente queste crepe, peraltro neanche molto nascoste, della nostra organizzazione mentale in campo diagnostico e riabilitativo.
Qual è il problema psicologico – esistenziale del paziente psicotico, o meglio del paziente disabile che è diventato o sta per diventare anche psicotico?
Di fronte a una serie variabile e più o meno nutrita di difficoltà cognitivo – percettive, di controllo delle emozioni e di rappresentazione e organizzazione del mondo interno ed esterno, invece di isolare e rafforzare le funzioni malate e integrare col resto (rafforzandolo), si difende dalla sovrastimolazione ambientale riducendola indiscriminatamente, riducendola e abbassando le funzioni dell’io, con meccanismi antalgici.
Come?
Stabilendo l’obiettivo primario di mantenere comunque una omeostasi, cioè salvaguardare a qualunque costo una qualche integrità complessiva (come avviene in una cicatrice cutanea o in un fegato cirrotico, = la continuità a scapito della finezza della funzione) e di evitare l’eccessiva spiacevolezza di certe sensazioni (atteggiamento “antalgico”).
Per far questo deve lavorare simultaneamente e/o alternativamente su tutti i fronti:
1) riduce ancora e attivamente la propria percezione (già deficitaria) dei fattori esterni ed interni non controllabili
Per far questo “non vede” le cose, “rimuove” freudianamente molte percezioni, “nega”, scollega cause da conseguenze ecc. ecc.. Ma, dato che anche in questo caso, è in vigore la massima di cui sopra, quella per cui “gli dei accecano chi non vuol vedere”, questo rischia di rendere definitive le sue già precarie capacità di organizzare la sua realtà esterna ed interna e logora in maniera permanente gli strumenti stessi della percezione.
Ne derivano deficit funzionali (cognitivi, psicomotori, sociali, ecc.) sempre più gravi ed estesi, che alimentano a circolo chiuso il processo.
2) tenta attivamente di modificare l’ambiente in senso materno (=regressivo), in modo da indurlo a soddisfare certi suoi bisogni fondamentali, senza essere così critico e consapevole da rompergli il “gioco”, che è già abbastanza complicato per conto suo.
Questo postula un attivo e tenace scardinamento delle funzioni percettive delle persone circostanti, famigliari e operatori, volto ad abbassare le loro funzioni critiche, a scollegare, a introdurre tempi e logiche alternative ecc. ecc. Dà vita a tutte le “figure retoriche” che conosciamo in letteratura, come “sineddoche” e “metonimia” la parte per il tutto (la vela al posto della nave), la causa per la conseguenza, paradossi, ossimori, catafore, ecc., per sconnettere, come il poeta, le funzioni logiche proprie e dell’ascoltatore.
Questa strategia ha buon gioco perché anche gli operatori, come ho detto, sono già inclini a fare lo stesso per conto loro.
L’eliminazione della critica esterna mira con ciò a facilitare una confusione e una identificazione reciproca tra sé e il gruppo di operatori.
L’abbassamento delle funzioni critiche del gruppo di operatori tende a confermare e ad accentuare tutto il processo, diventando quindi un fattore causale secondario.
3) abbassa attivamente le funzioni superiori dell’Io.
Le funzioni superiori dell’Io, consapevolezza e comprensione delle cose, autodeterminazione, autonomia, capacità di inserimento nel mondo, progettualità esistenziale, responsabilità, ecc. risultano più o meno abbassate: il paziente rinuncia a tutta una serie di “metabisogni” (riconoscimenti, carriera, soldi, affetti, ecc.) e alla sua stessa esistenza come soggetto sociale, s costruisce una scala di valori alternativa, in cambio del fatto di essere messo al riparo dalle tensioni, responsabilità, competizione, scelte di vita, decisioni, e dalla stessa consapevolezza delle cose, ecc..
E rinuncia ad essere un soggetto pensante, critico e autocritico.
Alienazione dell’io, che si proietta sull’ambiente e delega agli altri non solo il soddisfacimento dei propri bisogni, ma anche la propria definizione e la stessa identità: pretende cioè, con una operazione squisitamente paradossale, di essere “soggettivato” dagli altri, cioè esistere senza essere se stesso, senza averne la responsabilità, senza doverne rispondere.
Anche l’alienazione è contagiosa, nei due sensi.
E’ come se il paziente perseguisse una specie di equilibrio, nella quale funzioni elevate (dell’Io per l’appunto) e funzioni “periferiche” o “settoriali” si limitassero e si mortificassero a vicenda: limiti cognitivi (ecc.) determinano un abbassamento di livello dell’Io e abbassamento dell’Io determina limiti cognitivi. Il tutto esteso anche nell’ambiente, che, senza rendersene conto, viene largamente coinvolto e utilizzato in una ricerca di equilibrio a livelli sempre più bassi.
Si tratta di meccanismi a circuito chiuso che si autoalimentano e riducono sempre di più le abilità e accentuano sempre di più i meccanismi di auto- ed eterodistruzione, finché non viene trovato un punto di equilibrio soddisfacente, una famiglia o una comunità compiacenti che capiscano poco e proteggano (in senso deteriore) molto.
La protezione così ottenuta, però, non è mirata e settoriale, ma globale e indifferenziata, con forti note di infantilizzazione. La vera protezione sarebbe, da parte del paziente, farsi aiutare a capire e a controllare certe proprie deficienze percettive e organizzative nel confrontarsi con la realtà. Dotarsi di qualche “protesi” che lo renda più autonomo.
Invece cerca semplicemente di essere tenuto al riparo dalla realtà e/o protetto genericamente anche in cose che saprebbe fare benissimo, pur, ovviamente, senza dirlo.
Tutto questo sistema sarebbe perfetto se tutti trovassero la loro soddisfazione….ma questo non succede…soprattutto per gli operatori.
Ma anche in questo caso non si può mai parlare di soddisfazione perché tale equilibrio viene ottenuto a spese di qualche bisogno incomprimibile (proprio o dell’ambiente) che prima o poi dà luogo a forme di “ribellione”.
Però c’è anche un corollario positivo che può essere sfruttato nella terapia: possiamo contare sul fatto che nella psicosi, ogni singolo sintomo è, almeno, in buona misura il risultato di un equilibrio ed è quasi sempre e quasi del tutto precario, cioè tale da poter essere cambiato, cambiando alcune variabili anche non immediatamente inerenti il sintomo stesso.
La psicosi occulta è proprio l’insieme di queste cose ed è confusa in maniera inestricabile dalla psicosi indotta negli operatori, da cui viene anche attivamente alimentata.
Consiste nell’indurre, da parte del paziente, gli osservatori (medici, operatori, ecc.) a far finta di credere al gioco difensivo – antalgico che ha messo in atto, senza tener conto del fatto che il senso del “far finta” si perde, ahimé, molto rapidamente, per cui tutti, semplicemente, credono a ciò che viene costruito e presentato dal paziente.
E anzi lo confermano e lo stabilizzano nel tempo.
Per cui la diagnosi si fa soprattutto sull’ambiente famigliare e sugli operatori.
Il paziente disabile intellettivo, come quello affetto da molte altre forme di disabilità fisiche e di altro genere, quando è destinato a diventare “psicotico occulto” reagisce esattamente alla stesso modo e attiva gli stessi meccanismi e soprattutto i meccanismi di contagio dell’ambiente.
Questo vuol dire che non fa più capire esattamente quanto è disabile e quanto no, soprattutto per quanto riguarda il suo bisogno di protezione, che non si sa mai quanto è reale e quanto è il frutto di una psicotizzazione secondaria.
Andreottianamente io scelgo di diffidare sempre, pensare sempre il peggio (cioè presumere sempre la “malafede”).
Diffidare però vuole anche dire avere sempre fiducia nelle capacità di correzione, quindi pensare il meglio.
La diagnosi la facciamo soprattutto sugli operatori.
DIAGNOSI TRAMITE I CURANTI
La diagnosi la facciamo soprattutto tramite il gruppo dei curanti.
A. Patologia del “paterno” (Carenziale)
● perdita dei limiti interni ed esterni
● assenza/eccesso di critica
● aggressività indifferenziata
● contrapposizioni viscerali tra singoli e sottogruppi
● scarso interesse alla realtà esterna
B. Patologia del materno
● indulgenza eccessiva e patologica
● eccessivo ed improprio uso di sentimenti ed emozioni
● “fusionalità” con colleghi e pazienti
● passività e scarsa progettualità
● debole identità individuale, e scarsa indipendenza dal gruppo
● infantilizzazione
C. Patologia dell’io
● Errori nell’ambito del pensiero simbolico
● “Disinvoltura” logica (scollamento tra cause e conseguenze, tra parte e tutto, tempi, ecc.)
● Incapacità di dare significato a ciò che succede e a ciò che si fa
● Incapacità di contestualizzare i particolari ed elaborare situazioni complesse
● Pensiero concreto
● Disturbi dell’identità professionale o anche personale
STATI D’ANIMO TERMINALI
● Impotenza
● Frustrazione
● Demotivazione
La terapia, nel campo della disabilità intellettiva, deve ricalcare il paradigma seguito nella terapia comunitaria delle psicosi in generale.
Ci sono delle differenze, ma non strutturali, quindi il modello è lo stesso.
Messaggi da far pervenire
– far capire al paziente che si è capito il suo gioco.
– rifiutare il contagio psicotico in tutte le sue forme: mantenendo alta l’identità del gruppo, la sua capacità di comprensione, ma anche la capacità di divertirsi e di creare, con o senza i pazienti: cioè non legare la propria autostima alla soluzione dei problemi, ma ad altre cose.
– ribadire di fronte al paziente la non manipolabilità dell’ambiente e l’esistenza stessa dell’altro, esigere il rispetto delle regole, ecc.
– frustrare la richiesta di protezione indifferenziata e infantilizzante, ma dare sempre aiuto finalizzato a qualcosa, pensato e programmato e comunque adultizzante.
– mantenere alto il senso della personalità del paziente, considerarlo sempre un soggetto quale è e sa di essere. Siamo noi che lo dimentichiamo. Importanti in questo i colloqui e le altre esperienze individualizzate, anche corporee.
– migliorare attivamente funzioni e abilità di tutti i tipi: cognitive, verbali, estetiche, sociali, motorie, ecc. ecc.);
– non credere mai alla rigidità e all’inevitabilità dei sintomi, cioè sapere che c’è sempre la possibilità di creare equilibri diversi e a livelli superiori e quindi abbandonare sintomi che non servono più.
Strumenti
Non devono essere né sentimenti, né parole, né relazioni affettive a veicolare questi messaggi: sono troppo manipolabili e destituiti di importanza agli occhi del paziente e di difficile mentalizzazione.
Ma questa non è un’ “operazione psicologica”, da delegare allo psicologo, se c’è.
Non dobbiamo convincere il paziente di qualcosa o cercare di “migliorare la comunicazione” con lui e amenità di questo genere.
Più lo facciamo più alimentiamo il processo.
Le forze in gioco sono di ben altra portata!
Se il paziente sente che non abbiamo capito tutta una serie di cose, non ci stima più (giustamente), non ci considera partner adeguati, ci manipola di più e aumenta i sintomi.
Dobbiamo interrompere il gioco del paziente a tutti i livelli, ma nei fatti, non nelle parole.
La terapia deve esser fatta da cose: regole, proposte operative, lavori, attività riabilitative, strutture organizzative.
Il paziente psicotico non è curato dalle parole ma dalle cose, che devono essere fatte prima di tutto a partire dal gruppo di operatori, che devono capire il loro pensiero concreto, i loro limiti strutturali e le loro astuzie, e incorporarne consapevolmente le caratteristiche strutturali, con l’obiettivo remoto di ribaltarle.
Questo non viene molto capito, in genere.
La terapia è dunque un’autoterapia del gruppo e un dialogo strutturale, non verbale con i pazienti.
AUTORGANIZZAZIONE DEL GRUPPO
1) Di fronte alla tendenza a confondere gli ambiti, a negare la realtà e a operare senza limiti deve ribadire concretamente il limite, l’altro, la realtà esterna e cioè:
– saper dire di no ai pazienti
– dare molta importanza al rispetto delle regole e dei diritti degli altri
– ricostruire pazientemente il concetto di “altro” e di “altrui”
– presentarsi articolata al suo interno: coesa, sì, ma non monolitica
– incorporare dialetticamente atteggiamenti divergenti
– esprimere approcci diversi: essere “padre” ed essere “madre”
– presentare approcci diversificati, dal contatto col fuori allo spazio privilegiato
– aprirsi all’esterno il più possibile, secondo le possibilità del paziente
– essere “ambasciatori della realtà” e delle ragioni della società
– coinvolgere i pazienti in maggiori prese di coscienza e di responsabilità
– farli interessare alla realtà esterna (gruppi di discussione, ecc.)
2) Di fronte alla tendenza alla fusionalità (patologia del “materno”) e all’emotività trabordante
– far fare esperienze di genuino maternale
– capire l’importanza dei colloqui e di altre esperienze individualizzate
– sviluppare genuina affettività
– saper dare attenzione al singolo, anche “contro” il gruppo in certi casi
– individuare e istituire spazi individualizzati, ma circoscritti
3) Di fronte ai problemi dell’Io
– deve presentarsi visibilmente unitario e dotato di una forte identità
– presentare attività non direttamente centrate sui sintomi
– proporre un programma terapeutico unitario e internamente coerente
– fare molto lavoro di équipe e far vedere che lo fa
– prendere decisioni meditate e condivise da tutti gli operatori
– avere una intensa vita culturale, di ricerca, di ludus istituzionale, divertirsi nel lavoro.
– far sempre riferimento a una persona adulta potenzialmente in grado di gestirsi
– creare aree di alternativa e di messa in discussione dell’esistente
Il paziente sente immediatamente se è inserito in un contenitore coeso e pensante o no e lo monitorizza per esplorarne la tenuta e la capacità di funzionamento.
I trucchi e gli espedienti per esplorare li conosciamo.
– Chiedere una cosa a tutti, ecc., per saggiare quanto ci mettiamo d’accordo e quindi parliamo di lui: se ognuno pensa e decide per conto suo, vuol dire che non c’è pensiero comune.
– Oppure osservare quanto e come facciamo le varie attività: se facciamo troppo sul serio un’attività specifica, per esempio cognitiva, capisce che prendiamo sul serio il suo sintomo e non si fida.
– Se non facciamo niente, capisce che non abbiamo progetto.
Se sente che il gruppo è forte e funzionante, può permettersi di abbandonare in parte il suo gioco e può affidarsi, cioè attivare un processo terapeutico.
Se no, no e anzi accentua i sintomi.
E’ un gioco molto complesso e non facile, perché implica atteggiamenti mentali contraddittori tra di loro e che devono restarlo, sia perché devono essere espressione di una psiche funzionante e quindi complessa, sia perché è quello di cui i pazienti hanno bisogno per migliorare. Bisogna saper sostituire il frazionamento patologico indotto nel gruppo dalla comunicazione ambigua della psicosi in dialettica costruttiva e controllata: no agli spacchi distruttivi, ma no all’uniformità.
Il modello non è dissimile da quello della psicoterapia e anche dell’educazione dei figli di qualunque famiglia normale. La difficoltà deriva dalla patologia, naturalmente, che impone di veicolare certi messaggi con strumenti concreti e poi dalla necessità di far operare in maniera talvolta dissonante, ma unitaria, molte persone diverse.
L’attitudine che il gruppo di lavoro deve acquisire è quella di confrontarsi col pensiero concreto: i pazienti psicotici capiscono solo cose concrete, visibili e tangibili ed è su questa lunghezza d’onda che bisogna operare, sia pure in vista di un superamento.
Questo atteggiamento unitario, ma articolato, attento all’alterità e al gruppo, ma sollecito dell’interiorità del singolo, affettivo, anche in maniera esclusiva, ma circoscritto entro limiti spazio – temporali, viene recepito dai pazienti e premiato con un consistente miglioramento di tutto il quadro sintomatologico e comportamentale, migliorando di molto la vita dell’istituzione.
Il paziente si sente “capito”, cioè, in termini concreti, contenuto e riportato entro i suoi limiti, riconosciuto nella sua interiorità più propria e rimasta più integra dalla malattia, esposto alla realtà esterna gradualmente e settorialmente, essendo stato dotato di strumenti di comprensione adeguati.