Scuola di Psicoterapia Istituzionale:
principi teorici de metodologici
Una teorizzazione unica e una codificazione di questo tipo di operatività clinica ovviamente ancora non esiste, essendo la materia in forte evoluzione e soprattutto, per sua intrinseca natura e per scelta metodologica obbligata, sempre inserita in realtà più ampie e programmaticamente incontrollabili: i servizi psichiatrici territoriali scaturiti dalla Legge 180, la multiformità delle soluzioni comunitarie italiane e la loro diversità dalle prime esperienze inglesi e francesi, ecc.
I pionieri di tale prassi psicoterapeutica possono essere considerati vari Autori francesi degli anni cinquanta, come AJURIAGUERRA, RACAMIER, DIATKINE, LEBOVICI, SIVADON, WALLON e gli altri membri di quel pool di teorici e clinici, che gettarono le prime basi della concezione della psichiatria sul territorio, successivamente da noi recepita nella Legge 180. Il loro lavoro costituisce la base, la matrice di gran parte del nostro odierno modo di intendere la Psichiatria, che, per quanto riguarda in particolare la Psicoterapia, va dalle applicazioni della Psicoanalisi alle istituzioni in generale e alle comunità terapeutiche in particolare, a forme spesso originalissime di intervento sulla sintomatologia schizofrenica, basate preliminarmente su tecniche di rieducazione delle funzioni spaziali, grafiche, motorie, espressive, linguistiche. Attorno a tali intuizioni si sono formati alcuni tra i più importanti filoni di arteterapia, terapia corporea, psicomotricità, grafomotricità, nonché vari tipi di terapia espressiva, ritenuti tuttora fondamentali.
Ma fu soprattutto P.- C. RACAMIER, il primo che usò il termine di “psicoterapia istituzionale”, per significare un intervento psicoterapeutico complesso, tale da includere nel rapporto tra terapeuta e paziente tutte le componenti di una istituzione di cura (infermieri, educatori, terapisti della riabilitazione, personale ausiliario, ecc.), cioè tutte le persone che si occupano e hanno rapporti col paziente e che, con modalità diverse e complementari, sono depositarie di parti della sua patologia e in varia misura corresponsabili della relativa elaborazione.
Naturalmente non tutti i principi elaborati da RACAMIER hanno resistito al trascorrere dei decenni, proprio perché la realtà clinica, organizzativa, tecnica e ideologica della Psichiatria e della Psicoanalisi, alla quale, in particolare, egli si riferiva in maniera, sì, creativa, ma univoca e ancora molto ortodossa, è cambiata e cambia a ritmo accelerato.
D’altra parte, come già detto, è peculiare di questo tipo di approccio la necessità di contestualizzare l’intervento psicoterapeutico all’interno di relazioni istituzionali sempre diverse, perché diverse devono essere, nel singolo momento e in momenti successivi, le persone che si occupano del paziente e diversi devono essere gli approcci.
Approcci con i quali lo psicoterapeuta deve interfacciarsi, siano essi sinergici, divergenti o neutrali, o addirittura, come nel caso degli interventi psicofarmacologici, tendenzialmente escludenti, perché talmente efficaci da far ritenere pleonastico (almeno sul momento) qualunque ulteriore lavoro.
D’altra parte proprio l’indiscutibile, seppure enfatizzata, efficacia di questi come di altri interventi, tra cui, per esempio, quelli connessi con un forte controllo ambientale, per l’apparente facilità con cui permettono di controllare i sintomi più disturbanti, espongono al rischio di perdere il senso della complessità dei meccanismi di formazione dei sintomi stessi e quindi del significato, del peso e del valore predittivo – prospettico di ciascuna manifestazione verbale e comportamentale dei pazienti.
Infatti è noto che alcuni dei più rilevanti problemi che si incontrano nella conduzione terapeutica dei pazienti psicotici sono legati alla difficoltà degli operatori di leggere e quindi di capire ciò che succede, creandosi una sistematica confusione dei livelli di lettura che porta a considerare parziale ciò che è globale e globale ciò che è parziale e a scambiare l’apparenza per la sostanza e viceversa. E’ molto facile, per esempio, nella consuetudine del rapporto con i pazienti, che atteggiamenti di distacco aggressivo o di richiesta di affetto da parte loro, che non sono, in partenza, relazionali se non nell’ambito di un’interattività molto primitiva, vengano letti invece come espressione di intenzionalità adulta e suscitino conseguenti risposte relazionali, ovviamente improprie e fuorvianti.
Altrettanto spesso, al contrario, vengono considerati “sintomi”, cioè alterazioni di funzioni su base prevalentemente biologica, comportamenti dei pazienti che sono la risposta relazionale a precise induzioni dei curanti, peraltro formatesi su base fantasmatica e quindi quasi del tutto inconsapevoli.
Tutto ciò, parallelamente alla conseguente, continua sopravvalutazione e/o sottovalutazione delle possibilità dei singoli pazienti, impedisce di ponderare realisticamente le loro residue e potenziali capacità di recupero e di elaborare le strategie e le tattiche più adeguate, sfociando di fatto in una globalizzazione indifferenziata e in un’omologazione, coinvolgente il singolo e tutto il suo gruppo.
Tali sfasature sono in definitiva forme di psicosi indotta, precisa conseguenza (o “contagio”, se vogliamo) delle spinte disgregative esercitate dalla scissione psicotica dei pazienti sulle funzioni logiche ed emotive del gruppo di lavoro. Un disturbo che, oltre a provocare frequenti equivoci di natura interpersonale, crea degli evidenti circoli viziosi, i quali, sviluppandosi al di fuori di qualunque controllo, diventano moltiplicatori di patologia.
In base a meccanismi simili, possono prendere corpo errori di conduzione anche gravi, come quello, frequente quanto pericoloso, di prospettare a un paziente, ritenuto dotato, mete sproporzionate alla sua attuale fragilità, per quanto teoricamente adeguate o di dare a un altro, presunto fragile e dipendente, una protezione nelle cose della quotidianità, inutile e dannosa, al posto di un supporto alla crescita di più ampio respiro.
Oppure l’errore di non dare niente a nessuno, dato che nessuno chiede niente…, mentre si sa che nei pazienti psicotici, per avviare una terapia, inscindibile dalla riabilitazione, è indispensabile una spinta iniziale, motivante ma realistica, proveniente dall’esterno, sulla base di un riconoscimento e di una valutazione molto accurati di tutti i fattori in gioco, parziali e complessivi, attuali e potenziali, personali e gruppali.
Gli operatori, peraltro, sono poco aiutati in questo dalle istanze di concretezza e di oggettività, oggi insite nella imperante filosofia dell’evidence based, come pure dalle richieste di produttività e di efficienza, dettate da ragioni amministrative, pubbliche o private.
Come pure dai vari strumenti di valutazione di esito (spesso scale di derivazione anglosassone mal adattate alla nostra realtà culturale) possono diventare qualcosa o di molto ingenuo o ai limiti della scorrettezza tecnica e deontologica. Esse, non riuscendo a recepire adeguatamente i tempi e i modi della psicosi e quindi a capire stili di comunicazione basati sulla confusione tra globale e parziale, formale e sostanziale, presente, passato e futuro, ecc. ecc., come già detto, tendono per loro natura a considerare “obiettivi” singoli comportamenti, come se fossero variabili indipendenti e biologicamente fondate anziché funzioni mutevoli di un contesto relazionale, per di più affetto da distorsioni indotte. Tanto meno, per gli stessi motivi, sono in grado di rilevare le virtualità, cioè le possibili vie di evoluzione futura, che non sono ancora visibili, anche perché subordinate a un forte lavoro terapeutico e a una precisa motivazione dei curanti, per passare da uno stato di potenzialità, peraltro già leggibile ad un esame veramente attento e sofisticato, ad uno stato di effettiva attuazione.
Istanze amministrative e tecniche favoriscono negli operatori una cultura orientata a dare risposte immediate ai sintomi e ad adottare le strategie “efficaci” sul breve periodo, perché apparentemente meno costose. Per giusti o almeno comprensibili che tali orientamenti siano in generale, se applicati senza comprensione profonda dei fenomeni e senza adeguate mediazioni a questo tipo di psichiatria, si risolvono in ulteriori spinte nel senso della semplificazione globalizzante e della frammentazione, cioè in forme di collusione con la psicosi, destinate a confermarla, ad aggravarla e a produrre cronicizzazione e quindi maggiori costi.
In questo contesto, lo psicoterapeuta quindi deve essere prima di tutto il garante della complessità, attuale e soprattutto futura, del paziente, anche nei momenti in cui questa è tutt’altro che evidente e meno che mai rivendicata dagli interessati, cioè dai pazienti stessi. Tale affermazione di principio, apparentemente astratta e filosofeggiante, si trasforma invece in un preciso metodo di lavoro, che porta a diffidare sempre, nel rapporto col mondo psicotico, delle soluzioni semplici, logiche e lineari, come di altrettante trappole, segnale quasi sicuro del fatto che si sta entrando in simmetria con un sintomo e ci si sta addentrando in un cunicolo che porterà in breve a un punto morto. Mentre solo un modo di pensare complesso e paradossale, come bene ha insegnato RACAMIER, promette, nell’interazione con la psicosi, di ripristinare qualche forma di equilibrio e di ragionevolezza.
Ed è proprio da tale logica paradossale che scaturisce un modo di operare in funzione di mete invisibili, che mantiene in essere, per il paziente e per il gruppo di lavoro, la virtualità di ciò che ancora non c’è, ma che in futuro ci sarà e ci sarà proprio perché qualcuno in precedenza ci avrà creduto.
Quando gli altri approcci, come il contenimento ambientale, i farmaci, ecc., cadono nella trappola di subire e confermare, anziché contenere, la frammentazione del paziente, è proprio il non fare niente dello psicoterapeuta che ricorda concretamente al gruppo di colleghi che si sta lavorando per un futura identità sana “che non si vede e che ancora non c’è”, anche se questo difficile ruolo, non richiesto da nessuno e non suffragato da nessuna “evidenza”, può sembrare talvolta mal distinguibile da una posizione velleitaria e aprioristica o semplicemente da un non-intervento.
Ma il fatto di essere il principale garante e il rappresentante di una virtualità non implica che lo psicoterapeuta debba essere, egli stesso, invisibile e intangibile. Dovendo muoversi in un ambiente intriso di esasperata e patologica concretezza, fatta di corporeità trabordante, di acting out, di tensioni emotive incontrollate, deve operare anch’egli nell’ambito di una tangibilità che è l’unica dimensione comprensibile in quel contesto, pur esplorando tutte le strade atte a facilitare l’accesso a una dimensione superiore, di “smaterializzazione” dei vissuti, che non colluda però e non si confonda con forme di perdita di contatto col reale di qualità psicotica.
Pur salvaguardando, in questa prospettiva, alcuni preziosi momenti di effettiva sospensione di qualunque rapporto immediato con la quotidianità, cosa che dovrebbe avvenire nei colloqui individuali, per la maggior parte del suo tempo lo psicoterapeuta deve essere un membro del gruppo di lavoro come gli altri, con la licenza di dedicarsi a qualunque attività terapeutico – riabilitativa ritenga utile e interessante.
Gli aspetti concreti e materiali, relativamente inconsueti nel lavoro psicoterapeutico tradizionale, consistono in interventi volti, prima di tutto, a contenere la produttività psicotica e a migliorare il rapporto dei pazienti con la realtà esterna, attraverso l’apprendimento o il riapprendimento di abilità, la rieducazione di funzioni, la pedagogia di un pensare e di un fare normali e adattati; il tutto propedeutico all’esposizione controllata e graduale a situazioni nuove, coinvolgenti persone diverse ed estranee alla terapia.
A tale scopo è necessaria anche una buona conoscenza dei processi neuropsicologici che sottendono il mondo esperienziale dei pazienti e degli strumenti atti a valutarli. Processi che spesso risultano lesi, parallelamente allo svilupparsi della psicosi, senza che sia mai univocamente chiaro quanto ciò avvenga come “causa” e quanto come “conseguenza” dei disturbi psicopatologici, ma che è comunque necessario cercare di correggere, in vista di un processo di riabilitazione del paziente.
Nell’ambito degli strumenti di valutazione di tipo obiettivante impiegati su soggetti affetti da disturbi psichici, rivestono un’importanza specifica i più recenti sviluppi della psicologia cognitiva e della testistica neuropsicologica applicate su differenti popolazioni di pazienti psichiatrici, individuabili in funzione di caratteristiche diagnostiche, dimensionali e diacronico-evolutive.
Si tratta infatti di un livello di osservazione differente da quello psicopatologico e clinico, per certi aspetti più vicino alla matrice neurobiologica da cui scaturiscono i processi mentali normali e patologici e in gran parte indipendente – sia pure ad essi intimamente collegato – tanto dagli aspetti psicologici soggettivo – esperenziali, quanto dalle determinanti e dalle interferenze di tipo ambientale.
In particolare, differenti strumenti di indagine di tipo standardizzato (opportunamente assemblati a partenza da batterie precostituite di test neuropsicologici e/o da singoli test selezionati in modo flessibile) permettono di determinare lo stato basale del funzionamento cognitivo cerebrale dei pazienti esaminati, esplorabile lungo tre direttrici principali: a) quella delle funzioni cognitive elementari e di capacità generale (organizzazione delle informazioni; funzionamento concettuale-esecutivo, funzioni di memoria e apprendimento, funzioni visuo-spaziali, visuo-percettive e di pensiero spaziale; funzioni prassiche, gnosiche e linguistiche); b) quella delle funzioni cognitive sottese a processi relazionali (includente il riconoscimento di emozioni complesse e l’attribuzione di significato alle rappresentazioni della realtà e ad eventi interpersonali); c) quella delle funzioni mentali superiori di crescente complessità (tra cui si ricordano i processi metacognitivi di autoriflessività, comprensione della mente altrui e decentramento, l’insight di malattia, la memoria a lungo termine per eventi autobiografici, le capacità di pensiero narrativo e di conoscenza semantica).
La possibilità di determinare modificazioni rispetto ai parametri di funzionamento considerati vicini alla norma e/o variazioni rispetto a valori basali primitivamente accertati nel corso o per effetto di interventi terapeutici di differente natura costituisce un importante strumento di conoscenza sia per il monitoraggio di attività neurobiologiche sottese o correlate con il versante psicologico dei processi mentali, sia per l’opportunità di approntare tecniche specifiche di intervento riabilitativo, rivolte alla modificazione diretta o indiretta di meccanismi neurali alla base delle disfunzioni cognitive rilevate.
Tutti gli interventi, comunque, di tipo contenitivo, pedagogico, riabilitativo, sociale, ecc., necessari in prima istanza per vari motivi, devono però col tempo evolvere, da approcci di fatto a messaggi ricchi di implicazioni creative e comunicative.
E’ lo psicoterapeuta colui che più di altri, quando possibile e utile, deve saper fare emergere e rendere efficaci terapeuticamente i risvolti simbolici delle situazioni, pur nell’ambito di una normatività consapevolmente un po’ banalizzante. Un compito apparentemente improponibile, come quello di ingessare un arto e, contemporaneamente rieducarne la funzione; compito reso però possibile dal fatto che spesso la semplice presenza di una prospettiva psicologica sullo sfondo del lavoro riabilitativo di una struttura è sufficiente a trasformare, almeno nell’immaginario dei pazienti più ricettivi, la qualità di molti interventi concreti, facendoli diventare metafore di crescita, di comunicazione, di inventiva, anticipazioni tangibili di un diverso modo di essere e di pensare.
La necessità di muoversi tra la concretezza esasperata della realtà delle istituzioni e un mondo di simboli da ripristinare, senza poter “parlare”, in senso stretto, perché la funzione simbolica dei pazienti e talvolta anche quella dei colleghi (come effetto della psicosi indotta) è, per definizione, lesa, costringe a cercare o ad attribuire unilateralmente significato e relazionalità a quello che viene fatto, anche quando si tratta di comportamenti ancora a-finalistici e programmaticamente non comunicativi, al corpo, all’espressività artistica, alle mille situazioni della quotidianità. Tale funzione, che non è mai dato di sapere, a priori, quanto è arbitraria e quanto no, sempre sul filo del reframing, cioè di una ridefinizione inevitabilmente paradossale, raramente è resa facile dagli interlocutori, più spesso è destinata a scontrarsi con dure resistenze da parte loro e rientra nell’ambito in cui si esprime al massimo grado la professionalità dello psicoterapeuta istituzionale.
Essa comporta inoltre il fatto di attuare, da un momento all’altro, interventi divergenti o addirittura a prima vista contrapposti, come proporre una pedagogia del reale e immediatamente dopo sospendere il rapporto con la realtà per facilitare situazioni di regressione; o come esercitare un ruolo propositivo e paterno e relazionarsi subito dopo con modalità indulgenti e astensive, ecc.: tutti cambiamenti di fronte impensabili per chi non ha un senso fortissimo degli aspetti più complessi ed elevati della funzione dell’io.
L’atteggiamento apparentemente contraddittorio e l’abitudine paradossale a operare contemporaneamente in più dimensioni, sono tra i pochi strumenti a disposizione per cercare di controllare il modus operandi dei pazienti, basato proprio su un continuo, abilissimo scivolamento tra un livello di lettura e l’altro, tra concreto e simbolico, tra un piano di immediatezza e uno di astrazione, tra momenti di tempismo invidiabile e l’immobilità senza tempo del delirio.
Un ambiente, cioè, in cui il pensiero terapeutico “tradizionale”, tendente solo all’attenuazione dei sintomi e al sostegno emotivo del paziente, naufraga miseramente, proprio quando ottiene i risultati che si prefigge… e si accorge che non riesce a liberare se stesso e la relazione col paziente da una cronicità senza appello.
Dal punto di vista pratico è indispensabile per questi operatori una formazione molto ampia e articolata, in grado di conoscere e ponderare molto esattamente l’apporto di ogni singolo intervento, proprio e altrui.
Per svolgere con credibilità un ruolo così delicato e importante, lo psicoterapeuta deve assolutamente bandire ogni forma di ingenuità tecnica, come quelle derivate dalla vecchia psicoanalisi (che psicologizzano e interpretano ogni dettaglio in termini di desideri rimossi o simili) o quelle, tipiche degli anni settanta, tendenti a leggere qualunque sintomo in termini precostituiti, per esempio di tipo famigliare, ideologico o sociale.
Le letture e i comportamenti precostituiti vanno nel senso della semplificazione e del riduzionismo e, con la loro facile prevedibilità, danno troppo vantaggio a un interlocutore che, come detto sopra, fa proprio dei continui cambiamenti di livello di lettura la sua “arma” più efficace, nel distruggere significatività e comunicazione interpersonale.
Lo psicoterapeuta inoltre non deve né entrare in competizione con gli altri operatori proponendo il suo apporto come il migliore, né trincerarsi in uno sdegnoso isolamento, approfittando del ruolo appartato e “astensivo”, fuori dalla mischia, che gli viene assegnato. Deve invece sapere che il suo punto di attacco più proprio si collocherebbe, sì, a livelli di complessità e di “smaterializzazione” superiori a quelli attualmente possibili per il paziente, ma che egli deve lavorare in tale direzione con tutti gli strumenti consentiti dalla precaria situazione del momento, anche col rischio, consapevole e controllato, che della sua professionalità venga fatto, per lunghi periodi, un uso improprio.
A tale scopo, il programma della Scuola è articolato in tre sezioni.
Un’area clinico-biologica intende proporre una buona conoscenza della Psicopatologia, della Clinica Neurologica, della Clinica Psichiatrica e della Neuropsicologia, nonché della Psicofarmacologia, soprattutto per quanto riguarda i farmaci più recenti.
L’area psicologica e psicodinamica, oltre alla Psicologia Generale e alla Psicologia dello sviluppo, e a nozioni sui principali filoni, storici e attuali, della Psicoterapia (freudiano, junghiano, rogersiano, ecc.), prevede un insegnamento teorico e pratico (anche come forma di lavoro su di sé, da parte degli allievi) delle principali terapie espressive e non verbali, particolarmente adatte ai pazienti psicotici (arteterapia, musicoterapia, teatroterapia, ecc. con possibilità di specializzarsi in una di esse) e terapie corporee. Un insegnamento generale di Psicoterapia cercherà di far percepire il filo conduttore che collega tra di loro le varie esperienze terapeutiche, verbali e non verbali.
L’area istituzionale e riabilitativa si dedicherà alla vita delle istituzioni pubbliche e private, ambulatoriali e residenziali. Verranno presentati la loro organizzazione e i loro problemi, con le modalità, normali e patologiche, con cui i sintomi dei pazienti vengono vissuti ed elaborati dai gruppi di lavoro. Particolare attenzione verrà data alle tecniche riabilitative ed ergo-socioterapeutiche, nel doppio ruolo di strumenti di rieducazione di funzioni (cognitive, sociali, lavorative, ecc.) e mediatori di relazioni interpersonali, con in più nozioni di Terapia sistemica e Terapia cognitivo – comportamentale delle psicosi.